Divorare il cielo, la recensione: le solitudini di Paolo Giordano, 10 anni dopo

A 10 anni dal successo mondiale di La solitudine dei numeri primi, Paolo Giordano torna in libreria con un libro complesso e pieno d'ambizione e carattere: la recensione di Divorare il cielo.

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Divorare il cielo è un titolo ambizioso, che sa di ribellione alle schiere celesti e di obiettivi irrealizzabili, di quelli capaci di distruggere quanti li inseguono per tutta la vita. Mangiarsi la volta celeste, distruggere i padri e gli dei che la abitano, alla ricerca di un angolo di mondo intonso, in cui la prima traccia umana è la propria: è questa la necessità esistenziale di Bern, l'astro celeste attorno a cui ruota tutto il romanzo e i suoi protagonisti. Il suo potere d'attrazione è irresistibile, tanto che Teresa è rapita al primo sguardo che si scambiano da ragazzini, quando lei trascorre le lunghe pause estive a Speziale, in attesa di tornare al sicuro sotto il cielo artificiale di Torino.

Rapita e perduta, Teresa; da quella prima incursione di Bern e dei suoi fratelli Nicola e Tommaso nella piscina di sua nonna e nel suo campo visivo, anche lei è destinata a diventare prigioniera di un paesaggio e di un legame. L'orizzonte sarà proprio quello di Speziale, un paesino pugliese la cui ruvidezza nasconde inaspettati momenti di cattiveria e di gratitudine. Il legame è quello con la masseria dove vivono Bern e la sua strana famiglia; il luogo impervio e difficile da chiamare casa, a cui tornare nei momenti difficili, dove imparare a smettere di addomesticare la terra e la natura, assecondandone i ritmi.

Divorare il cielo, la recensione: la maturità di Paolo Giordano

Non è semplice riassumere in poche righe Divorare il cielo, un romanzo corposo per volume di pagine, denso di avvenimenti, che continua a rilanciare le possibilità di una trama articolata e dallo scorrimento non lineare. L'obiettivo di Paolo Giordano sembra proprio questo rilancio continuo, quando basterebbe raccontare le tre estati che segnano l'avvicinamento e l'allontanamento di Teresa adolescente da Bern per ottenere un romanzo compiuto, una buona lettura. Eppure ogni volta che il libro chiude una fase della vita di Teresa, è sempre pronto ad aprirne un'altra, facendosi spazio in zone d'ombra accuratamente disegnate, che verranno cancellate da rivelazioni e prese di coscienza solo a volume ultimato.

In Divorare il cielo c'è più di un romanzo e meno di una vita, perché conosciamo Teresa da 16enne e la lasciamo 16 anni più tardi, quando l'esigenza di cambiare e riscrivere sé stessa è forte e, data la sua giovane età, ancora possibile. Eppure l'abbiamo seguita per pagine di un dolore così assordante e assoluto che le troviamo addosso una saggezza che solo i vecchi contadini che osservano il mondo che cambia attorno a loro posseggono. Accanto a lei si muovo i fantasmi di quei ragazzini con cui è cresciuta, anch'essi consumati dalla frenesia della loro stella polare, Bern.

Ragazzo inaccessibile e splendida ossessione di molti dei protagonisti del romanzo, Bern incarna anche i temi cardine della scrittura di Giordano: in lui vive quellabruciante necessità di trovare uno scopo, una guida, qualcosa che vada oltre il concreto, l'umano e il quotidiano, in cui riversare la propria fede.

Quando Dio e le figure paterne - tutte molto ambivalenti eppure vivide, molto più quelle materne assenti o incolori - vengono meno, Bern trascina Teresa e Tommaso in un credo utopico ed ecologico che crescerà proprio nella masseria. Sospesa tra una comune sessantottina e l'avvisaglia delle rivoluzione biologica e organica che travolgerà di lì a poco il resto del mondo agricolo, la masseria metterà radici nei cuori dei protagonisti di quel breve momento utopico, anche quando i rapporti s'incrineranno, anche quando sfioreranno la tragedia.