Murakami in punta di metafora: la recensione di L'assassinio del Commendatore - Libro secondo
Metafore che si trasformano e avventure letterarie che si concludono: ecco la recensione del secondo tomo di L'assassinio del Commendatore, l'ultima fatica narrativa di Haruki Murakami.
Un pittore senza nome, una buca nel folto della foresta senza contenuto e un quadro bellissimo senza una definitiva interpretazione: è un romanzo di mancanze quello che Murakami ha regalato ai suoi lettori nel 2018. La sagoma dei vuoti che Murakami traccia nel pieno narrativo di L'assassinio del Commendatore è distintiva, inequivocabilmente figlia della sua penna. Anche quando l'autore lo vorrebbe, non è mai un vuoto informe o angosciante, anzi: è una sagoma dalla forma ormai geometrica e familiare, come quel gioco per piccolissimi in cui su una tavoletta di legno ci sono 3 buchi; uno è quadrato, uno tondo e l'altro triangolare.
Per rimanere in metafora (che da sottotitolo del tomo "si trasforma") il lettore è il bambino che tenta di far passare le forme colorare di legno dentro gli spazi vuoti. Non c'è però mai l'incomprensione del pargolo che schiaccia la forma sulla sagoma errata, mai la sorpresa della scoperta quando la forma invece passa senza sforzo nel buco corretto.
Quello di Murakami è un gioco così familiare (a tratti ripetitivo) da essere diventato una sorta di istinto connaturato nel lettore stesso. Qualcuno ha la perenne sensazione di essere spiato? C'è un anfratto sotterraneo angosciante dal cui fondo il protagonista osserva l'esterno? Scompare un gatto? Ma naturalmente: cos'altro dovrebbe o potrebbe succedere in un romanzo di Murakami?
Le ultime pennellate
Ve ne avevo già parlato ai tempi dell'uscita del primo tomo nella recensione dedicata: non è che al centro di L'assassinio del Commendatore manchi un'idea forte, anzi, forse tra le ultime fatiche del romanziere questa è quella con lo spunto più promettente e interessante. Chiedere a un lettore di investire 800 pagine e svariate ore del suo tempo in nome di un'idea ben congegnata, nascosta in un dipinto bellissimo e indecifrabile, è una fatica che solo scrittori come Murakami possono dare per scontata presso il suo pubblico. Scrittori la cui pubblicazione del nuovo romanzo viene vissuta con l'attesa di un avvento, il che costringe case editrici come Einaudi a scelte dolorose o tour de force traduttivi per per placare la spasmodica curiosità dei lettori.
Il verdetto alla fine del primo tomo non poteva che essere una sospensione di giudizio. Dopo aver però seguito Murakami per tutto il tortuoso cammino del suo romanzo, dopo aver raggiunto la parola fine di L'assassinio del Commendatore viene da chiedersi quale sia la meta davvero raggiunta. L'impressione è di essere tornati sostanzialmente alpunto di partenza, soprattutto guardando al protagonista, rimasto senza nome e senza un radicale cambiamento. L'unica consapevolezza che la bizzarra avventura vissuta tra le montagne di Odawara a fronte all'improvviso, repentino divorzio dalla moglie genera in lui è che le scelte di vita di un tempo, deprecabili ma economicamente vantaggiose, rimangono valide. Faceva il ritrattista non per vocazione ma per necessità e la crisi matrimoniale sembrava l'inizio del compimento di una maturazione, rivoluzione creativa.
Invece no; Murakami ci lascia senza una trasformazione, senza nemmeno il rimpianto o la cupa disperazione derivata dall'aver perso consapevolezza che il protagonista è incapace di uscire da una vita che in uno sprazzo di lucidità ha riconosciuto mediocre e inerme. Non c'è nemmeno una sorta di amara negazione dell'evidenza. L'intera storia al centro di L'assassinio del Commendatore è una sorta di black-outche non lascia dietro di sé quasi nulla: due ritratti appesi in remote ville di montagna, un crisi matrimoniale di cui scompare per magia persino la cicatrice, il corpo e la casa di un genio di cui rimane solo polvere.
Se non la meta, il viaggio
Alle volte non conta dove arrivi o perché, ma il viaggio stesso è la vera ricchezza nascosta nell'esperienza. Non si può negare a Murakami di saper plasmare un romanzo, di suscitare curiosità nel lettore: la composizione dei suoi quadri narrativi è piena di stile, la sua pennellata ricca di colore e maestria. Dentro la sovrabbondanza di questo romanzo - perdonate questa tara da compravendita al mercato, ma stiamo comunque parlando di 800 pagine - sembra nascondersi un cronico sottosviluppo di potenziali linee narrative mai portate a compimento.
Tutto il tortuoso, inconcludente viaggio per le provincie giapponesi del primo tomo si riflette nell'altrettanto complesso viaggio nel mondo sospeso tra realtà e astratto, tra regno del corpo e terra delle idee che il protagonista intraprende per salvare una persona a lui cara. Era davvero necessario? All'interno dell'economia del romanzo sappiamo che no, il personaggio scomparso era in una situazione di relativo pericolo. Viene da dire che anche il pericoloso viaggio intrapreso dal pittore in realtà poi non è costato granché: non è un grande sacrificio scambiare la salvezza di una persona con qualcosa di prezioso, se l'oggetto in questione non è nemmeno tuo.
[...] ho la forza di "credere". Potrei trovarmi rinchiuso nel posto più freddo e più buio, perdermi nella landa più selvaggia, eppure non smetterei ma i di credere che, o prima o dopo, qualcuno verrebbe a prendermi e condurmi fuori di lì.
All'esterno della narrazione però è abbastanza sconcertante notare come l'intera parentesi abbia una ricaduta quasi nulla sul discorso affrontato da Murakami, su quello che ci vuole dire e sulla nostra esperienza di lettura. Esattamente come il peregrinare per le provincie giapponesi ruotava attorno a un**'unica scena di peso** (l'incontro con l'uomo dalla Subaru Forester bianca e la notte con la misteriosa ragazza magra) qui dell'intero viaggio cosa rimane? Un tentacolo minaccioso ma informe, una visione fugace che di fatto non cambia nulla. In quel tentacolo c'è quel qualcosa di cruciale che questo romanzo dovrebbe dire o fare, ma che non riesce a conquistare la scena.
Difficile poi entrare in contatto con l'idea e la metafora che Murakami continua ad evocare, quando al contempo ti sommerge di informazioni forvianti e superflue su macchine sportive, donne eleganti e prosperose (a cui non viene concesso nemmeno di leggere un libro chiaramente identificabile!), ragazzine ossessionate dal proprio seno eun'infinità di dettagli che riecheggiano dentro la bibliografia di Murakami. Per il neofita deve essere un'esperienza spossante, per chi è allenato allo stile e alle ossessioni di Murakami stavolta l'eco di questi ritorni non raggiunge la melodia sperata.
Potrebbe dipendere dal modo in cui Murakami scrive i suoi romanzi: come raccontava in Il mestiere dello scrittore, lui si siede su una sedia e comincia a scrivere, lasciando sostanzialmente che il romanzo lo conduca dove vuole. Bisogna avere l'onestà di dire che stavoltanon si è andati da nessuna parte. Da qualche parte dentro questo tomo poderoso c'è un bel romanzo, ma sembra di leggere qualcosa di incompiuto, non rivisto. Usandogli una brutalità inevitabile, tirando fuori l'unico volume pregevole nascosto in questi due tomi dispersivi, la storia sarebbe stata diversa.
Una storia che entra nel vivo dalla prima pagina, salvo poi scoprire che in realtà è l'ultima:un prologo di ottocento pagine che s'interrompe proprio quando si comincia a fare sul serio non è delusione che si possa promuovere a cuor leggero. Nemmeno partendo dal presupposto che tendo ad essere molto critica con questo scrittore. Nemmeno se il soggetto in questione è uno scrittore di fama mondiale come Murakami. L'unico modo per rendere davvero potente e compiuto L'assassinio del commendatore è **avvalersi di una pericolosa doppia metafora;**esseri misteriosi che popolano il mondo astratto percorso dal protagonista nella seconda parte del romanzo. Facendolo e scorgendo Murakami stesso in quel pittore che tenta di ritrovare la sua vena creativa ma si ritrova a dipingere infinite varianti dello stesso ritratto per sicurezza economica per i suoi desiderosi committenti, allora il tutto acquisisce una forza decisamente differente.
Murakami porta a termine la sua ultima imponente fatica ma la metafora non si trasforma come sperato: tirando le somme, la lettura finisce per premiare solo i murakamer più affezionati e incrollabili.