Una lotta per la sopravvivenza in un mondo spietato. La lunga marcia di Stephen King, pubblicata con lo pseudonimo di Richard Bachman, è una storia di resilienza. Di paura. Di voglia di vivere contrapposta al desiderio di morte.
Io appartengo a quella schiera di lettori che avevano approcciato Richard Bachman, al momento del suo debutto in libreria, senza sapere che fosse lo pseudonimo di Stephen King.
Le storie che il Re aveva all'epoca pubblicato con il nome di Bachman - ricordo Uscita per l'inferno, L'occhio del male e Ossessione, comprati e letti subito - all'epoca sembravano più cupi, perversi e in qualche modo "cattivi" rispetto alle opere firmate ufficialmente. Stiamo parlando della seconda metà degli anni '80, quando arrivarono fra le mie man le pubblicazioni sotto pseudonimo date alle stampe alla fine degli anni '70.
La lunga marcia, senza dubbio il più notevole dei romanzi pubblicati col nome di Bachman, mi era sfuggito.
L'ho recuperato in seguito, divorandolo in due giorni.
Antenati degli Hunger Games
La premessa narrativa è un'antenata degli Hunger Games, e non dubito che Suzanne Collins si sia lasciata ispirare: una sfida mortale compiuta da "volontari" con la speranza di salvarsi da una vita e da un mondo spaventosi, e naturalmente trasmessa in diretta TV a beneficio del pubblico.
Dal confine con il Canada fino al Massachusetts, con arrivo a Boston: poco meno di 3000 km da percorrere a piedi, senza soste, senza attrezzatura, senza assistenza.
Cento concorrenti obbligati a restare al di sopra di una velocità media di 6 km l'ora: alla quarta infrazione, chi rallenta viene fucilato dai soldati che controllano lo svolgimento della gara a bordo dei loro carro armati.
Ray Garraty, 16 anni, è determinato a tenere duro a qualsiasi costo. Durante la lunga, infinita marcia, si trova inevitabilmente a legare con alcuni partecipanti e a entrare in conflitto con altri. Ma alla fine, all'arrivo, ci sarà posto per un solo vincitore...
Definita "congedo", l'eliminazione dei partecipanti che infrangono il rigidissimo regolamento diventa spettacolarizzazione della morte di cui il pubblico, pur vivendo in un mondo da incubo, continua a essere assetato.
Paura, desiderio di morte, sete di libertà
A noi non importa chi abbia ideato la marcia, quando e perché: non c'importa più già dopo poche pagine, quando l'unica cosa che conta è l'immaginazione. La capacità di immedesimarci nei panni dei partecipanti, di sentire la loro fatica, di farci coinvolgere in quell'esperienza di dolore, spossatezza e stanchezza inesorabile che ogni sportivo ha provato almeno una volta nella vita. E che ogni essere umano, metaforicamente, ha attraversato infinite volte.
Più forte del dolore, più forte della fatica, più forte della stanchezza c'è solo lei: la paura. La molla che costringe Ray e gli altri ad andare avanti, fin quando ce n'è.
I partecipanti non marciano più con il corpo, marciano con la sola forza di volontà. La mente comanda il corpo, sopporta il dolore, ordina ai piedi sanguinanti di continuare a camminare. Un passo dopo l'altro.
Noi lettori ci perdiamo in quel senso di comunità che finisce per legare i ragazzi, i "fortunati" selezionati da una lunga lista di aspiranti corridori. Ragazzi che cercano la sfida estrema, la ricompensa più grande, rendendosi conto troppo tardi di aver buttato via la propria vita. Riuscendo a capire solo in punto di morte che l’unica, vera ragione che li aveva spinti a partecipare era il desiderio di morte scaturito dalla mancanza di prospettive.
Un romanzo duro, spietato, come il mondo che dipinge e la marcia che lo alimenta.
Da leggere, assolutamente.
Il modo distopico e dispotico che avvolge i concorrenti è spietato, violento, assetato di sangue: è un mondo completamente pazzo. Come i concorrenti. Come il protagonista. Come noi, mentre leggiamo...