Febbre, la recensione del romanzo di Jonathan Bazzi nella sestina dello Strega 2020
di Cristina MigliaccioUn'autobiografia intensa e ricca di verità che ci trascina nel trascorso di un ragazzo che ha dovuto metabolizzare tutti gli sbagli e le paure del passato prima di poter andare avanti e far pace con se stesso.
Quest'anno il Premio Strega ha deciso di puntare al numero sei: non è stata annunciata una cinquina, come di consueto, bensì una sestina. La motivazione del resto è semplice: nei primi cinque titoli selezionati non era presente un volume di una piccola o media casa editrice e, come previsto da regolamento, in casi del genere è necessario dunque aggiungere un libro che rappresenti la categoria. Per questo, Jonathan Bazzi è entrato in gara per il rotto della cuffia con il suo romanzo Febbre, slittando dal settimo al sesto posto.
Febbre, più che un romanzo, è un'autobiografia e racconta il travagliato percorso di vita dell'autore, che si spoglia e mette su carta la sua nudità, raccontando di una vita sbrandellata come un puzzle, i cui pezzi però tornano insieme come per magia, uno per volta, ognuno si fa carico di una mutazione, come un serpente che cambia pelle per trovare finalmente il proprio posto nel mondo.
Febbre, il romanzo della sestina del Premio Strega 2020
Questa è la storia di un ragazzo che ha trovato il coraggio di mettere su carta tutto ciò che ha assaporato dalla vita. Esperienze belle e brutte, gioie e dolori, ansie, paranoie, felicità. Bazzi in questo romanzo ha raccolto tutte le emozioni che ha provato da quel non tanto lontano 1985, quando è venuto al mondo, partendo dall'origine dei suoi problemi per venire a capo di quello più grande, che è costretto ad affrontare e che metabolizza a modo suo.
Jonathan apre il suo racconto con una frase ad effetto: "Tre anni fa mi è venuta la febbre e non è più andata via". Per metà della narrazione, l'autore rincorrerà la verità, cercherà di comprendere cosa gli è successo e perché, alternando momenti del presente con flashback del passato, per aiutarlo - e aiutarci - a comprendere meglio come i nostri trascorsi in qualche modo riescano ad avere il controllo su ciò che siamo diventati.
Jonathan scopre di essere sieropositivo. Ha contratto l'HIV e, anche se in un primo momento ammette di non esserne minimamente toccato, e che, anzi, è felice di aver finalmente trovato un nome alla sua malattia, per l'altra metà del romanzo non farà altro che dare la caccia a un'altra malattia fantasma, una giustificazione per la sua spossatezza, per l'assenza di voglia di vivere. Perché Jonathan a un certo punto vorrebbe arrendersi, non vale più la pena mettersi in piedi al mattino, preparare il caffè al proprio ragazzo illudendosi che sia ancora tutto come prima. Jonathan vorrebbe piegarsi alla sua malattia, lasciare che la mente abbia la meglio sul fisico, su tutto il resto. Ma non lo fa.
Perché leggere Febbre di Jonathan Bazzi?
Quando ho terminato la lettura ho pensato una cosa: forse questo romanzo non è per tutti. Non fraintendetemi: mi è piaciuto tutto, il calvario d'emozioni contrastanti, il continuo salto nel vuoto, il bisogno viscerale di consultare costantemente il passato per comprendere gli errori del presente. La storia di Bazzi è così vera da avermi risucchiato con sé. L'unica nota d'amarezza, e forse voluta, è il picco d'ipocondria che mi ha stretto la gola man mano che la lettura proseguiva con il suo corso.
Jonathan BazziCresco all'ombra di questo giudizio unilaterale, cresco con la paura di essere come lui.
Gli elementi più importanti del romanzo risiedono nella famiglia e nella costante ricerca d'affetto e, soprattutto, d'identità. Jonathan non ha fatto altro che cercare il suo posto nel mondo, inciampando spesso lungo la via, contraddicendosi il più delle volte (prima una scuola, poi un'altra), ma l'elemento ricorrente in tutte le sue scelte è sempre stata la paura: paura di crescere, paura di sbagliare, paura di essere felice. La famiglia definisce quello che siamo, l'abbiamo imparato tutti (talvolta a nostre spese) e quella di Jonathan non è stata una famiglia facile. Genitori assenti per gran parte della vita, nonni severi e altri forse fin troppo indifferenti, più un'omosessualità da scoprire.
Tina e Roberto, mia madre e mio padre: pronunciare, scrivere queste parole scatena un cortocircuito. Restaura in me la frattura primitiva, il guaio nel guaio. Simula una ricomposizione inutile, tutta ideale. Perché a voler essere onesti, non c'è proprio niente da ricomporre: una famiglia non c'è mai stata.
Sembra paradossale, ma la famiglia salta fuori soltanto davanti all'inevitabile: una morte, una malattia, un elemento traumatico che potrebbe cambiare per sempre ciò che siamo. Anche per Jonathan è stato così. La malattia ha permesso a sua madre di tornare nella sua vita, a comportarsi da mamma per un po'. Anche suo padre ha voluto provare a salvare il salvabile, ma ad unirli è stata soltanto una malattia per ciascuno (il figlio con l'HIV, il padre con la leucemia), un interesse reciproco che a lungo andare è diventata un'eco della propria malattia.
Il messaggio più bello di questo romanzo è che Jonathan, nonostante gli alti e bassi della sua vita, non ha mai mollato la spugna, cercando sempre una via di fuga. Desideroso di lasciarsi il degrado alle spalle, Jonathan ha aperto le porte su diversi scenari (voglio fare l'artista, voglio fare il parrucchiere, voglio studiare, no, voglio lavorare), contraddicendosi il più delle volte, ma molte delle scelte prese sono state indotte dalla consapevolezza di un malessere che nessun altro aveva a cuore. Jonathan si lascia condizionare dai problemi, ma non li affronta, piuttosto li circumnaviga e punta ad altro, sperando di potersi rialzare dal fondo e camminare a testa alta. Alcune volte funziona, altre no.
Quando arriva la malattia, Jonathan ci riprova, tenta una via di fuga, associando il malessere del corpo a qualcosa di più grave (una leucemia?), ma la verità è che è diventato schiavo della sua testa. Ed è proprio sua madre, quella donna che l'ha abbandonato gran parte della sua vita per viziare la propria, ad aprirgli occhi: finché non sarai tu a voler cambiare, tutto resterà esattamente così com'è. E allora Jonathan apre gli occhi: non vuole essere più vittima della sua malattia, ma vuole essere la penna che la racconta, che ne parla, che la combatte con la diffusione d'informazione. Jonathan ha scritto questo libro per raccontare la sua storia e arrivare al cuore di chi, come lui, ha sotterrato tutti i problemi in cerca di una via di fuga perché troppo terrorizzato dalla paura per poter fare altrimenti.
Questa è la storia di chi non vuole essere più vittima delle proprie paure, e allora le condivide con chi è come lui: sopprimere l'ansia e trovare il coraggio di vivere esattamente come si è.