Frankenstein, recensione del romanzo gotico di Mary Shelley
di Giulia GrecoProgresso scientifico, alienazione e visione rousseauiana della modernità si intrecciano in un classico senza tempo, il Frankenstein di Mary Shelley.
È l'estate del 1816 quando Mary Shelley e il marito Percy Bysshe Shelley, con la sorellastra di lei, Claire, vengono ospitati dall'amico George Gordon Byron a Villa Diodati, in Svizzera. Insieme a John Polidori, durante una notte tempestosa, Mary e Percy Shelley accettano la sfida letteraria lanciatagli da Byron, quella di scrivere un racconto del terrore, simile a quelli d'origine tedesca che il gruppo era solito leggere.
Quella notte nasce Frankenstein ovvero Il Prometeo moderno, capolavoro di Mary Shelley pubblicato per la prima volta in forma anonima nel 1818 con un'introduzione di Percy.
La versione che leggiamo noi oggi, che contiene una prefazione dell'autrice, viene data alle stampe per la prima volta solo nel 1831.
Il libro, per ammissione della stessa Mary Shelly, non trae origine, come si potrebbe immaginare, dai racconti tedeschi dell'orrore, ma dalla suggestione scaturita dalle discussioni sul potere della scienza. È possibile riportare in vita i defunti o, addirittura, creare un nuovo essere umano assemblando parti anatomiche di cadaveri? Domande che si inscrivono nel contesto di quella prima rivoluzione industriale caratterizzata da un grande avanzamento scientifico e tecnologico, dalle scoperte sull'elettricità di Volta e dagli esperimenti di Luigi Galvani.
È in questa cornice che Mary Shelley crea il suo romanzo, la favola nera di uno scienziato di nome Victor Frankenstein, uno studioso di filosofia naturale che sogna di “infondere la scintilla di vita nell'essere inanimato” da lui assemblato nel corso di due lunghi anni. Ma quando l'esperimento si trasforma in realtà, Victor volta le spalle all'essere deforme che lo terrorizza. Lo scienziato scappa via, spaventato e inorridito dalla bruttezza della sua creatura, ma nel momento in cui sta per raggiungere la famiglia in Svizzera, scopre che il suo fratellino è stato ucciso e comprende immediatamente che può esserci un solo responsabile: il mostro a cui ha dato la vita.
A Chamonix, Victor Frankenstein incontra la sua creatura, che inizia a narrare la propria storia. Così, noi lettori scopriamo che non si tratta di un mostro, che la creatura non è malvagia, ma è stata costretta a diventare tale a causa della grande sofferenza provocata dall'abbandono del padre e dal rifiuto degli altri essere umani. Il “mostro” desidera una compagna simile a lui e se in un primo momento Victor accetta la richiesta, successivamente, spaventato al pensiero che ciò possa costituire l'inizio di una discendenza di mostri, si tira indietro. E così, la creatura mette in atto la propria vendetta.
Scritto in forma epistolare, Frankenstein ovvero Il Prometeo moderno è il primo romanzo di fantascienza moderno. Nonostante venga considerato l'ultimo dei romanzi gotici dell'Ottocento, Frankenstein lo è solo in parte, perché costituisce piuttosto un punto di rottura col filone della letteratura gotica tradizionale inglese, quella di Horace Walpole o Ann Radcliffe. Non c'è ambientazione storica, non ci sono imponenti castelli né segrete oscure, non ci sono fantasmi o eventi soprannaturali. Ci sono invece la Svizzera e il laboratorio di uno scienziato che viola e sovverte l'ordine naturale delle cose, e ogni evento è giustificato e sostenuto da accurati studi scientifici e dottrine esoteriche. Tutto è dominato dalla ragione, motivato da una sequenza di causa ed effetto, oppure, e forse soprattutto, da sentimenti umani: da un lato, il desiderio di Frankenstein di infondere la vita in un essere inanimato, dall'altro, il dolore della creatura, la sua sensibilità e la necessità di ricevere affetto dal proprio padre.
Sopra ogni cosa, però, il romanzo è un'opera che pone quesiti etici e morali, il primo dei quali riguarda sicuramente la scienza e i pericoli di esperimenti senza regole. Sembra quasi che il romanzo di Mary Shelley voglia mettere il lettore in guardia rispetto all'illusione di una scienza senza vincoli. Come un moderno Prometeo, colui che rubò il fuoco agli dèi per donarlo agli uomini sfidando le imposizioni di Zeus, Frankenstein si ribella alla natura e plasma la sua creatura, senza tuttavia riuscire a controllarla. Probabilmente l'intento di Mary Shelley era un avvertimento sui pericoli dell'eccessiva ricerca scientifica e un invito all'equilibrio, uno dei valori più ricercati nella società inglese del diciottesimo secolo.
Ridurre la lettura di Frankentein a una critica ai pericoli del sapere scientifico sarebbe riduttivo. Il ruolo del progresso tecnologico e scientifico nel romanzo è molto più profondo di quanto possa sembrare a una prima lettura. La tematica della scienza si interseca con la concezione di matrice rousseauiana sulla natura fondamentalmente buona degli umani, violata e distrutta dalle convenzioni della società moderna. Come Rousseau afferma nel Discorso sulle scienze e sulle arti e nel Discorso sull'origine della disuguaglianza tra gli uomini, lo sviluppo culturale ha generato una corruzione dei costumi, l'uso della ragione è divenuto un abuso e si sono sviluppati sentimenti di egoismo e antagonismo venuti a galla nel passaggio dallo stato di natura a quello civile. Quella che Mary Shelley compie attraverso il suo scritto è anche una critica alle ingiustizie sociali, alle disuguaglianze tra ricchi e poverissimi (un sentimento che riflette le teorie socialiste di William Godwin, padre di Mary), a un mondo che, sulla base di un pregiudizio, esclude e rifiuta chi è considerato diverso a causa di una deformità.
Il mostro di Frankenstein ha un animo compassionevole, mostra gentilezza e generosità verso chiunque, ma il suo aspetto ispira invece paura e ripugnanza. È il ribrezzo degli altri nei suoi confronti a trasformare la creatura in un essere in cerca di vendetta.
Prima di conoscere l'odio e la crudeltà, la creatura va alla ricerca del calore dell'amicizia, impara ad apprezzare la natura ed è sensibile alla sua bellezza. Impara a conoscere il mondo, a parlare, a leggere e a pensare grazie a Goethe, Plutarco e Milton (la citazione che apre il libro è tratta proprio da Il paradiso perduto, “Chiuso entro la mia creta, t'ho forse io chiesto, Fattore, di diventar uomo? T'ho forse chiesto io di suscitarmi dalle tenebre?”). Osserva le persone da lontano e desidera ardentemente unirsi a loro, pur conscio di essere un reietto, unico rispetto a chiunque altro.
Ero dunque un mostro, una macchia sulla faccia della terra, qualcosa da cui tutti gli uomini fuggivano, che tutti gli uomini sconfessavano?
Dopo aver a lungo studiato i suoi vicini da lontano, nel momento in cui osa manifestarsi a loro, la creatura, nella sua spaventosa figura, suscita immediata avversione, ed è per questo che sceglie di abbandonarsi alla vendetta più sfrenata.
Ma era un tumulto di sentimenti che non poteva durare; l'eccessivo dispendio di energie mi affaticò e, impotente e disperato, caddi sull'erba umida. Nessuno fra le miriadi d'uomini esistenti avrebbe avuto pietà per me o mi avrebbe aiutato; perché avrei dovuto io mostrarmi buono con i miei nemici? No: da quel momento dichiarai guerra eterna all'umanità e, più di tutti, a colui che, creandomi, mi aveva votato a questa insopportabile abiezione.
È in questo momento che avviene in cambiamento, disperato, il mostro diventa demone, impara a operare il male dagli stessi uomini che tanto aveva ammirato. Nonostante ciò, al mostro è concessa la redenzione. Nel finale del romanzo, resosi conto del male perpetrato, augura a sé stesso la morte, punizione per gli errori commessi e rimedio alla proprie sofferenze.
Un classico senza tempo, che scava nei meandri dell'animo umano.