Pascoli, poeta delle piccole cose: le poesie più belle
di Elisabetta RossiGiovanni Pascoli è tra i maggiori rappresentanti italiani del Decadentismo. Nell'articolo abbiamo raccolto le sue poesie più belle.
Giovanni Pascoli è un poeta e critico italiano che ben rappresenta la corrente del Decadentismo letterario, in cui viene abbandonata la precisione scientifica del Positivismo per lasciare spazio all’irrazionale, a una conoscenza ottenuta attraverso l’intuizione di una realtà nascosta.
Le poesie di Giovanni Pascoli sono infatti caratterizzate dalla convinzione che il poeta debba cogliere i messaggi segreti della natura. Il mondo di conseguenza non è più rappresentato in chiave verista ma in maniera soggettiva. È un universo carico di simboli che rimandano a qualcosa di ignoto e misterioso.
Pascoli è anche il poeta delle piccole cose. Lui trae ispirazione per le sue liriche dalla quotidianità vista nei suoi aspetti più umili e semplici. Va però sottolineato che la sua visione della vita è pessimistica. Le dolorose perdite avute nel corso degli anni, in primis quella del padre assassinato e poi della madre, lo convincono a ritenere l’esistenza triste e malinconica, divorata dal dolore e dal male.
I componimenti che trovate raccolti in questo articolo, vi faranno conoscere in maniera approfondita la produzione poetica di Giovanni Pascoli e la sua profonda sensibilità.
Pascoli poesie
Giovanni Pascoli ha concepito la poesia come qualcosa di puro. Essa deve creare immagini belle e piacevoli, senza offrire ai lettori alcun tipo di insegnamento. Tuttavia è necessario che mantenga un’utilità sociale e morale. Le esperienze dolorose vissute, la convinzione che il mondo sia dominato dal male, lo portano a predicare la fratellanza tra gli uomini, condannando ogni forma di odio. Qui di seguito abbiamo raccolto le sue poesie più interessanti e coinvolgenti.
Rio Salto
Pascoli è stato sempre affascinato dal mondo cavalleresco e in questa lirica ricorda proprio il periodo della sua giovinezza in cui fantasticava sulle avventure di valorosi cavalieri.
Lo so: non era nella valle fonda
suon che s’udia di palafreni andanti:
era l’acqua che giù dalle stillanti
tegole a furia percotea la gronda.Pur via e via per l’infinita sponda
passar vedevo i cavalieri erranti;
scorgevo le corazze luccicanti,
scorgevo l’ombra galoppar sull’onda.Cessato il vento poi, non di galoppi
il suono udivo, nè vedea tremando
fughe remote al dubitoso lume;ma voi solo vedevo, amici pioppi!
Brusivano soave tentennando
lungo la sponda del mio dolce fiume.
I puffini dell’Adriatico
In questa lirica Pascoli racconta il mare con le sue voci misteriose. Nei versi fa emergere impressioni visive e uditive che preparano l’arrivo di un’alba estiva.
Tra cielo e mare (un rigo di carmino
recide intorno l’acque marezzate)
parlano. È un’alba cèrula d’estate:
non una randa in tutto quel turchino.Pur voci reca il soffio del garbino
con oziose e tremule risate.
Sono i puffini: su le mute ondate
Pende quel chiacchiericcio mattutino.Sembra un vociare, per la calma, fioco,
di marinai, ch’ad ora ad ora giunga
tra ‘l fievole sciacquio della risacca;quando, stagliate dentro l’oro e il fuoco,
le paranzelle in una riga lunga
dondolano sul mare liscio di lacca.
La mia sera
In questa lirica il Pascoli non racconta una sera qualunque, ma la sua. Un attimo in cui si riflette la sua vita giunta ormai al tramonto. Il finale infatti esprime il suo desiderio di pace dopo i tanti affanni vissuti.
Il giorno fu pieno di lampi;
ma ora verranno le stelle,
le tacite stelle. Nei campi
c'è un breve gre gre di ranelle.
Le tremule foglie dei pioppi
trascorre una gioia leggiera.Nel giorno, che lampi! che scoppi!
Che pace, la sera!Si devono aprire le stelle
nel cielo sì tenero e vivo.
Là, presso le allegre ranelle,
singhiozza monotono un rivo.
Di tutto quel cupo tumulto,
di tutta quell'aspra bufera,
non resta che un dolce singulto
nell'umida sera.È, quella infinita tempesta,
finita in un rivo canoro.
Dei fulmini fragili restano
cirri di porpora e d'oro.O stanco dolore, riposa!
La nube nel giorno più nera
fu quella che vedo più rosa
nell'ultima sera.Che voli di rondini intorno!
che gridi nell'aria serena!
La fame del povero giorno
prolunga la garrula cena.La parte, sì piccola, i nidi
nel giorno non l'ebbero intera.
Nè io… e che voli, che gridi,
mia limpida sera!Don… Don… E mi dicono, Dormi!
mi cantano, Dormi! sussurrano,
Dormi! bisbigliano, Dormi!
là, voci di tenebra azzurra…Mi sembrano canti di culla,
che fanno ch'io torni com'era…
sentivo mia madre… poi nulla…
sul far della sera.
Novembre
È una delle liriche più suggestive di Pascoli in cui si parla delle illusioni dei sensi. In un paesaggio limpido, inondato di sole, si ha l’impressione che sia primavera ma in realtà è autunno inoltrato. È l’estate di San Martino caratterizzata da pochi giorni di sole prima dell’arrivo dell’inverno.
Gemmea l'aria, il sole così chiaro
che tu ricerchi gli albicocchi in fiore,
e del prunalbo l'odorino amaro
senti nel cuore...Ma secco è il pruno, e le stecchite piante
di nere trame segnano il sereno,
e vuoto il cielo, e cavo al piè sonante
sembra il terreno.Silenzio, intorno: solo, alle ventate,
odi lontano, da giardini ed orti,
di foglie un cader fragile. È l'estate
fredda, dei morti.
L’assiuolo
L’assiuolo è un uccello rapace, il cui suono si sente nelle notti di luna. Nella lirica di Pascoli diventa l’eco dell’angoscia del poeta, di un sentimento di morte.
Dov’era la luna? chè il cielo
notava in un’alba di perla,
ed ergersi il mandorlo e il melo
parevano a meglio vederla.
Venivano soffi di lampi
da un nero di nubi laggiù;
veniva una voce dai campi:
chiù...Le stelle lucevano rare
tra mezzo alla nebbia di latte:
sentivo il cullare del mare,
sentivo un fru fru tra le fratte;
sentivo nel cuore un sussulto,
com’eco d’un grido che fu.
Sonava lontano il singulto:
chiù...Su tutte le lucide vette
tremava un sospiro di vento:
squassavano le cavallette
finissimi sistri d’argento
(tintinni a invisibili porte
che forse non s’aprono più?...);
e c’era quel pianto di morte...
chiù...
Il gelsomino notturno
Questa lirica è stata composta da Pascoli in occasione delle nozze di Gabriele Briganti di Lucca, un suo caro amico. Le immagini sono quelle di una natura silenziosa e dei due sposi che si apprestano a vivere la loro prima notte di nozze.
E s’aprono i fiori notturni,
nell’ora che penso ai miei cari.
Sono apparse in mezzo ai viburni
le farfalle crepuscolari.Da un pezzo si tacquero i gridi:
là sola una casa bisbiglia.
Sotto l’ali dormono i nidi,
come gli occhi sotto le ciglia.Dai calici aperti si esala
l’odore di fragole rosse.
Splende un lume là nella sala.
Nasce l’erba sopra le fosse.Un’ape tardiva sussurra
trovando già prese le celle.
La Chioccetta per l’aia azzurra
va col suo pigolio di stelle.Per tutta la notte s’esala
l’odore che passa col vento.
Passa il lume su per la scala;
brilla al primo piano: s’è spento...È l’alba: si chiudono i petali
un poco gualciti; si cova,
dentro l’urna molle e segreta,
non so che felicità nuova.
Pascoli poesie famose
Qui di seguito abbiamo raccolto le poesie di Giovanni Pascoli più famose e amate da lettori e critici.
X Agosto
Il 10 Agosto è una data dolorosa per il Pascoli perché è il giorno della morte di suo padre. La lirica s’incentra proprio su tale tematica. Non solo, essa è anche l’esempio di come il poeta riesca a trasfigurare la realtà in simbolo. Le stelle cadenti infatti sono viste come il pianto del cielo.
San Lorenzo, io lo so perché tanto
di stelle per l’aria tranquilla
arde e cade, perché sì gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.Ritornava una rondine al tetto:
l’uccisero: cadde tra spini:
ella aveva nel becco un insetto:
la cena de’ suoi rondinini.Ora è là, come in croce, che tende
quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido è nell’ombra, che attende,
che pigola sempre più piano.Anche un uomo tornava al suo nido:
l’uccisero: disse: Perdono;
e restò negli aperti occhi un grido:
portava due bambole in dono…Ora là, nella casa romita,
lo aspettano, aspettano in vano:
egli immobile, attonito, addita
le bambole al cielo lontano.E tu, Cielo, dall’alto dei mondi
sereni, infinito, immortale,
oh! d’un pianto di stelle lo inondi
quest’atomo opaco del Male!
Temporale
In questa lirica il Pascoli dipinge un temporale in rapide ed essenziali parole che pongono in evidenza tutte le caratteristiche del suo arrivo come il brontolio del tuono e i colori scuri del cielo.
Un bubbolio lontano…
Rosseggia l’orizzonte,
come affocato, a mare;
nero di pece, a monte,
stracci di nubi chiare:
tra il nero un casolare:
un’ala di gabbiano.
Lavandare
La lirica, scritta nel 1891, affronta il tema della solitudine e dell’abbandono rappresentato dalla desolante immagine della campagna dominata da un aratro lasciata in mezzo al campo.
Nel campo mezzo grigio e mezzo nero
resta un aratro senza buoi, che pare
dimenticato, tra il vapor leggero.E cadenzato dalla gora viene
lo sciabordare delle lavandare
con tonfi spessi e lunghe cantilene:Il vento soffia e nevica la frasca,
e tu non torno ancora al tuo paese!
quanto partisti, come son rimasta!
come l’aratro in mezzo alla maggese.
Maria
La poesia è dedicata al poeta alla cara e amatissima sorella Maria raccontata come una ragazza riservata e per nulla appariscente.
Ti splende su l’umile testa
la sera d’autunno, Maria!
Ti vedo sorridere mesta
tra i tocchi d’un’Avemaria:
sorride il tuo gracile viso;
né trova, il tuo dolce sorriso,
nessuno:così, con quelli occhi che nuovi
si fissano in ciò che tu trovi
per via; che nessuno ti sa;
quelli occhi sì puri e sì grandi,
coi quali perdoni, e domandi
pietà:quelli occhi sì grandi, sì buoni,
sì pii, che da quando li apristi,
ne diedero dolci perdoni!
ne sparsero lagrime tristi!
quelli occhi cui nulla mai diede
nessuno, cui nulla mai chiede
nessuno!quelli occhi che toccano appena
le cose! due poveri a cena
dal ricco, ignorati dai più;
due umili in fondo alla mensa,
due ospiti a cui non si pensa
già più!
La cavallina storta
In questa poesia Giovanni Pascoli rievoca l’assassinio del padre avvenuto la sera del 10 agosto, del quale non fu mai preso il colpevole. Un’ingiustizia che ha pesato sull’autore per tutta la sua vita.
Nella Torre il silenzio era già alto.
Sussurravano i pioppi del Rio Salto.
I cavalli normanni alle lor poste
frangean la biada con rumor di croste.Là in fondo la cavalla era, selvaggia,
nata tra i pini su la salsa spiaggia;
che nelle froge avea del mar gli spruzzi
ancora, e gli urli negli orecchi aguzzi.
Con su la greppia un gomito, da essa
era mia madre; e le dicea sommessa:
“O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;
tu capivi il suo cenno ed il suo detto!
Egli ha lasciato un figlio giovinetto;
il primo d’otto tra miei figli e figlie;
e la sua mano non toccò mai briglie.
Tu che ti senti ai fianchi l’uragano,
tu dai retta alla sua piccola mano.
Tu c’hai nel cuore la marina brulla,
tu dai retta alla sua voce fanciulla”.La cavalla volgea la scarna testa
verso mia madre, che dicea più mesta:
“O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;
lo so, lo so, che tu l’amavi forte!
Con lui c’eri tu sola e la sua morte
O nata in selve tra l’ondate e il vento,
tu tenesti nel cuore il tuo spavento;
sentendo lasso nella bocca il morso,
nel cuor veloce tu premesti il corso:
adagio seguitasti la tua via,
perché facesse in pace l’agonia…”.La scarna lunga testa era daccanto
al dolce viso di mia madre in pianto.
“O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;
oh! due parole egli dové pur dire!
E tu capisci, ma non sai ridire.Tu con le briglie sciolte tra le zampe,
con dentro gli occhi il fuoco delle vampe,
con negli orecchi l’eco degli scoppi,
seguitasti la via tra gli alti pioppi:
lo riportavi tra il morir del sole,
perché udissimo noi le sue parole”.
Stava attenta la lunga testa fiera.Mia madre l’abbraccio’ su la criniera.
“O cavallina, cavallina storna,
portavi a casa sua chi non ritorna!
a me, chi non ritornerà più mai!
Tu fosti buona… Ma parlar non sai!
Tu non sai, poverina; altri non osa.
Oh! ma tu devi dirmi una una cosa!Tu l’hai veduto l’uomo che l’uccise:
esso t’è qui nelle pupille fise.
Chi fu? Chi è? Ti voglio dire un nome.
E tu fa cenno. Dio t’insegni, come”.Ora, i cavalli non frangean la biada:
dormian sognando il bianco della strada.
La paglia non battean con l’unghie vuote:
dormian sognando il rullo delle ruote.Mia madre alzò nel gran silenzio un dito:
disse un nome… Sonò alto un nitrito.
I temi della poesia di Giovanni Pascoli
I temi dominanti nei componimenti di Giovanni Pascoli sono:
- la realtà colta nelle sue suggestioni più segrete attraverso l’impiego di analogie e corrispondenze tra lo stato d’animo e l’ambiente;
- L’infanzia e la famiglia;
- La natura, colta con la meraviglia e l’emozione di un bambino. Il poeta è come un fanciullino che scopre le cose intorno a sé con stupore riuscendone a cogliere le voci più segrete;
- La morte e il mistero;
- Il dolore per le perdite subite;
- Il cosmo.
La poesia di Pascoli è infine arricchita da un linguaggio rapido, espressivo e antiletterario. Le sue liriche sono estremamente musicali, le sue parole vibrano come le note di una canzone.
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