Fiabe brevi: le migliori da leggere ai bambini

di Elisabetta Rossi

Una raccolta delle fiabe brevi più belle e interessanti da leggere ai bambini.

Indice

Le fiabe brevi sono storie in cui vengono raccontate vicende che hanno lo scopo di trasmettere ai lettori e agli ascoltatori principi morali e insegnamenti educativi. Sono adatte per i bambini in quanto oltre a impartire regole di vita fondamentali, li aiutano a sviluppare la sfera della creatività e ad imparare parole e concetti nuovi.

La loro tradizione è antica e molte di esse hanno conosciuto svariate rielaborazioni nel corso dei secoli. Alcune storie riprendono vizi, virtù e ambizioni tipici degli esseri umani e per questa ragione risultano interessanti anche per gli adulti. Basti pensare ai racconti Disney amati in ugual modo da grandi e piccoli.

Le storie brevi, in virtù della loro lunghezza ridotta, possono essere utilizzate come esercizio di lettura per i bimbi che frequentano i primi anni di scuola. Spesso hanno per protagonisti animali antropomorfi, un elemento che le rende ancora più appetibili a un pubblico di piccoli studenti.

Fiabe brevi per bambini

Ecco per voi una raccolta di simpatiche e significative favole brevi da far conoscere ai vostri bambini.

L’uomo e la sua immagine di Jean de La Fontaine

Questa favola racconta le disavventure di un uomo innamorato di se stesso e concentrato solo su di sé.

Un uomo molto di se stesso amante e che, senza rivali, d’un bell’uomo si dava l’aria, in ciò fisso e beato, se la prendea di rabbia con gli specchi ch’ei dicea tutti falsi e accusatori. Per trarlo d’illusion fece la sorte benevola che, ovunque egli girasse coll’occhio, non vedesse altro che specchi.

Specchi dentro le case e in le botteghe de’ merciai, specchi in petto ai bellimbusti e fin sulle cinture delle belle, ovunque insomma a risanarlo il caso gli facea balenar davanti questo tacito consigliere delle belle.

Al mio Narciso allor altro non resta che andare, per fuggir tanto tormento, in paesi selvaggi e sconosciuti, ove di specchi non vi fosse il segno. Ma specchio ancora, o illusion, discende ivi un bel fiume, che da pura fonte sgorga e l’attira di sì strano incanto ch’ei non può dal cristal torcer lo sguardo.

Della favola è questa la morale, che non d’un solo io traggo a beneficio, ma di quanti son folli in questo mondo. L’anima umana è l’uomo vanitoso troppo amante di sé: gli specchi sono gli altrui difetti in cui come in ispeglio ogni nostro difetto si dipinge.

E il libro delle Massime, o mio Duca, è quel fiume che l’anima rapisce.

Le lepri e le ranocchie di Esopo

La favola di Esopo ci insegna che non dobbiamo avere paura degli altri, in quanto spesso questi timori sono del tutto ingiustificati.

In mezzo a un grande prato, le lepri si lamentavano di come erano costrette a vivere. -Gli uomini ci fanno paura: sono enormi e se riescono a prenderci ci mangiano. -I cani ci spaventano. Per non finire sotto i loro denti dobbiamo scappare via.

  • Se non stiamo attente, le aquile ci afferrano con i loro artigli e non ci lasciano più andare. -Siamo stanche di tremare di paura, di nasconderci, di scappare!
  • Andiamo a tuffarci nello stagno: lì uomini, cani e aquile non potranno raggiungerci.

Le lepri lasciarono il prato e si diressero di corsa, tutte insieme, verso uno stagno vicino. Forse l’acqua calma e accogliente avrebbe dato loro ospitalità, forse avrebbe sciolto tutte le loro paure, forse…
Intorno allo stagno c’era un folto gruppo di rane che gracidava senza sosta. Appena videro arrivare le lepri, le ranocchie si spaventarono e si tuffarono in acqua.

Una lepre le notò, fermo le compagne e disse: avete visto? Non siamo noi gli animali più paurosi del mondo le rane ci temono. E inutile tuffarci nello stagno. Restiamo nel nostro prato: qualche volta dovremmo scappare dagli altri ma qualche volta gli altri saranno a scappare da noi!

Le due bisacce di Jean de La Fontaine

Questa storia in origine ideata da Esopo, è stata riscritta da La Fontaine. Essa contiene una morale molto importante: gli uomini tendono a vedere i difetti altrui e non i propri.

Il re del mondo stava seduto sul suo trono e si lisciava la lunghissima barba bianca. Era una barba talmente grande e fitta, che spesso qualche uccellino ci faceva il nido. Quella barba così portentosa era frutto di anni e anni di vita, passata a reggere le sorti del mondo, ma non vi nego che c’era anche un altro motivo per cui essa era così infinitamente lunga: il re si annoiava a morte!

“Che barba!”, esclamò anche quel giorno con la sua voce potente. “Mi annoio molto a stare quassù sempre da solo. Mi viene voglia di organizzare una festa con tutti gli animali”
“Che bella idea! Che bella idea!”, cinguettarono gli uccellini impigliati nella sua barba.
“Allora è deciso!”, confermò il re del mondo. “Inviterò proprio tutti, dal più grande al più minuscolo. Ognuno potrà venire e dirmi i suoi problemi e le sue lamentele. Ascolterò tutti e accontenterò le loro richieste!”.

Il giorno della festa, una gran folla di animali si presentò alla reggia all’ora stabilita. Ognuno indossava il suo miglior vestito da gran gala e ognuno era desideroso di raccontare i suoi problemi.

Per prima prese la parola la scimmia, che disse: “Su di me, non ho niente di cui lamentarmi. Sono una scimmia davvero bella e piena di talenti: cammino a quattro mani, mi muovo agile sui rami e sulla terra.” Dopo essersi lodato, aggiunse: “Non posso dire lo stesso dell’orso: con quel corpo grande e grosso, è sgraziato e goffo! Non piace a nessuno, e neanche i pittori lo vogliono ritrarre nei loro quadri!”.

L’orso stava giusto giusto mangiando una tartina al salmone al buffet. Quando sentì quelle parole, per poco il boccone non gli andò di traverso. Subito prese la parola per ribattere: “Sgraziato? Goffo? Ma se sono una creatura forte e veloce a nuotare. Se c’è qualcuno di mal fatto e rozzo, qui, quello è l’elefante! Ha una coda minuscola e una testa gigantesca. Il naso poi, l’avete visto? È troppo lungo!”.
“Per tua informazione”, ribatté furioso l’elefante: “quello che tu chiami ‘naso’ è una proboscide! Forse ti sei confuso: l’animale più sproporzionato e goffo è senz’altro la balena!”.

Ovviamente la balena si sentì molto offesa e volle dire la sua. In men che non si dica, si scatenò un grande baccano. L’intera reggia del re del mondo rimbombava di urla, offese, elogi di sé stessi e critiche agli altri animali.

Ogni animale voleva dire quali erano i difetti e le brutture del compagno. Anche la formica ebbe da ridire riguardo al moscerino. Lo scarabeo riguardo alla coccinella, e chi più ne ha, più ne metta. Il re del mondo strabuzzò gli occhi: non si aspettava che ogni animale fosse così contento di sé e, allo stesso tempo, criticasse così tanto gli altri. Si mise a ridere di tutto cuore e la sua barba iniziò a traballare. Tutti gli uccellini, divertiti, svolazzarono in aria sopra a quel buffo teatrino.
“Via via”, cinguettavano agli animali arrabbiati. “Tornate nelle vostre tane, la riunione è finita!”.
Tutti quanti tornarono a casa loro e la reggia tornò silenziosa, ma con quel bel ricordo con cui rallegrarsi.

La donna e la gallina di Esopo

Questa favola brevissima insegna che chi non sa accontentarsi di ciò che si ha, finisce con il non avere niente.

Una donna aveva una gallina, che ogni giorno faceva un uovo. Dopo un po’ di tempo, la donna iniziò a rimpinzare di cibo la gallina. “Se la faccio diventare bella grassa, sono sicura che farà più di un uovo al giorno”.
Alla fine, però, la gallina diventò così grassa da non riuscire più a fare le uova.
La donna, per non essersi accontentata di quello che aveva, finì per non poter mangiare più neanche un uovo al giorno.

I due giovani e il cuoco

In questa storia, Esopo racconta di due giovani birbanti che pensano di potersi prendere gioco di un cuoco più furbo di loro.

Due giovani compravano da mangiare da un cuoco molto abile in cucina. A un certo punto, il cuoco si girò per evitare che il cibo nella padella si bruciasse. Uno dei due giovani prese veloce una fetta di crostata appena sfornata e la gettò in mano all’altro giovane.
Il cuoco si accorse di quel movimento furtivo e subito notò che era sparita una fetta di crostata.
“Ridatemi la mia fetta, per favore”, disse con calma.

Il giovane che l’aveva rubata disse: “Non ce l’ho io”. Ed era vero.
Il giovane che aveva la fetta in mano disse: “Non l’ho rubata io”. Ed era vero anche questo.
“E va bene, come volete. Potete mentire a me, ma a rimproverarvi sarà la vostra coscienza!”

I due giovani a quelle parole furono presi da un grande senso di colpa e restituirono la fetta di crostata, chiedendo scusa al cuoco.

Fiabe arabe

Le fiabe arabe conducono in vicende ricche di fascino, mistero e magia e sono popolate da personaggi che hanno le loro radici nel folklore arabo. Qui di seguito abbiamo raccolto le più interessanti.

La fiaba di Aladino

In questa vicenda viene raccontata la storia di Aladino, un giovane che entra in possesso di un anello magico.

Aladino era un ragazzo che abitava in una città della lontana Arabia, e che non aveva una gran voglia di lavorare.
Anzi, non ne aveva nessunissima voglia. Inutilmente suo padre, che faceva il sarto, lo rimproverava, lo incitava a cercarsi un’occupazione:
"Diventerai uomo e ti dispiacerà d’aver perduto tanto tempo. Agli oziosi vengono brutte idee per la testa".
"Sarà quel che sarà", rispondeva Aladino.
Morto il padre, il ragazzo continuò a bighellonare da mattina a sera. E un giorno, mentre stava giocando, come al solito, con alcuni amici, gli si avvicinò un forestiero.
"Sei tu il figlio del sarto?", gli domandò costui.
"Sì", rispose Aladino, "ma mio padre è morto da qualche anno".

Il forestiero si mise a piangere: "Povero fratello mio. Ero venuto qui dall’Africa, dove vivo, per riabbracciarlo. Oh, che disgrazia!".
"Voi dunque sareste mio zio?", si stupì Aladino. "Non assomigliate a mio padre nemmeno un po’. Comunque venite, vi porto da mia madre".
Nemmeno la donna aveva mai saputo dell’esistenza di quello zio, che tuttavia le piacque perché assicurava di volersi prendere cura di Aladino, che lo avrebbe indotto a lavorare, e l’avrebbe fatto diventare ricco.

"Verrai con me. Ti porterò in un posto che sarà la tua fortuna", disse. E, preso per mano Aladino, che in realtà avrebbe preferito restarsene a casa, lo costrinse a seguirlo.
Camminarono per alcune settimane finché, giunti in una radura, il forestiero rivelò ad Aladino chi egli fosse in realtà.
"Non sono tuo zio, ma un mago. Ho deciso di renderti ricco, anzi ricchissimo. Lo vedi questo macigno? È pesante, ma tu dovrai spostarlo. Lì sotto c’è una caverna piena di diamanti. Ci entrerai e quell’immenso tesoro sarà tuo".

Aladino era molto diffidente. E aveva ragione. Lui non lo sapeva, ma quello era un mago cattivissimo. Attraverso terrificanti sortilegi aveva scoperto dov’era nascosto il più fantasmagorico tesoro del mondo, che contava, tra le tante meraviglie, una piccola lampada dagli straordinari poteri. Ma aveva anche scoperto che c’era una pietra a chiudere l’antro in cui quel tesoro era custodito, e che a sollevarla poteva essere una sola persona: quel fanciullo di nome Aladino.

Così, intendeva servirsi di lui. Per vincere la diffidenza di Aladino, perciò, il mago non esitò a consegnargli un anello.
"Mettilo al dito, non togliertelo mai. È un anello magico: ti sarà d’aiuto in tante occasioni. In cambio, tu per me dovrai fare una cosa: portarmi la piccola lampada che troverai in fondo alla caverna".
Incuriosito, Aladino a quel punto decise di spostare il macigno. Sotto c’era una scala che scendeva, profondissima, e il ragazzo la discese. Si trovò così in una grandissima caverna, con degli alberi meravigliosi dai cui rami pendevano, invece dei frutti, grappoli di brillanti, e ce n’erano da riempire cento sacchi, a raccoglierli.

Aladino non sapeva che cosa fossero i brillanti, però il loro luccichio gli piacque. Così ne colse alcune manate e se ne riempì le tasche. Vide anche la lampada. La prese, e cominciò a risalire verso l’imboccatura della caverna, dove il mago lo attendeva sempre più impaziente.
"Dammi la lampada, presto", gli ordinò il mago.
Era sua intenzione, non appena ottenuto ciò che gli stava a cuore, far ricadere il ragazzo nel baratro per lasciarvelo morire.
"No, prima voglio uscire", s’insospettì Aladino.
"Prima la lampada!".
"No, prima mi tiri fuori!".

A questo punto il mago, arrabbiatissimo, disse una formula magica e l’imboccatura del sotterraneo si richiuse sul povero Aladino che, disperato, piangeva a dirotto. E mentre piangeva, passava inavvertitamente le dita sull’anello, strofinandolo. Sappiamo già che l’anello era magico. Sollecitato a quel modo, esso rivelò subito i suoi poteri. Infatti, in una luce abbagliante, davanti ad Aladino apparve un genio.

"Comanda cosa vuoi", disse il genio ad Aladino inchinandosi, "e io ti accontenterò".
"Riportami subito a casa", fu la richiesta.
In men che non si dica, il ragazzo si ritrovò dalla madre, le mostrò le pietre preziose e la lampada che aveva con sé.
La donna trasalì, comprendendo la straordinarietà di quanto vedeva. Nervosamente si mise a pulire la lampada che, essendo magica, era la casa di un genio ancor più potente di quello dell’anello.
Richiamato da quel gesto, il nuovo genio subito le comparve davanti.
"Sono al tuo servizio", s’inchinò. "Ordina e io ti esaudirò".

Fino ad allora, nella povera casa di Aladino si era sofferta la fame, perciò ella chiese una tavola imbandita con gustose vivande e buon vino.
Immediatamente la tavola fu apparecchiata: una tavola principesca, che ritornò tutti i giorni, due volte al giorno. Sostenuto dalla buona sorte, Aladino smise di oziare, lavorò, si dette buon nome. La gente giunse persino a lodarlo, a riverirlo.

Un giorno Aladino intravide, non visto, la bellissima figlia del re che usciva a passeggio. Non visto, in quanto se ne stava nascosto perché, quando la principessa usciva in pubblico, tutti dovevano rinchiudersi in casa e non ardire di alzare gli occhi su di lei, pena la morte.
Ma la curiosità aveva indotto il giovane a dare una sbirciatina. E subito se ne innamorò.
"Madre, voglio sposare la principessa".
"Oh, povero figlio mio. Sei impazzito?", trepidò la donna.
"Mai stato più in senno, madre. Ecco qui una ciotola di brillanti. Vai in udienza dal re, che ti riceverà. E tu, offrendogli un dono così strabiliante, gli dirai che glielo mando io, e che voglio sposarne la figlia".
Tremando di paura per l’ardire, la madre di Aladino si recò dal re, e fece ciò che le aveva detto il figlio.

Visto l’inestimabile tesoro recatogli in dono, il re si rallegrò. Se regalava simili ricchezze al suo re, quel giovane ben poteva essere lo sposo della principessa.
Per celebrare degnamente le nozze, Aladino strofinò la lampada e chiese al genio di costruirgli un palazzo più bello di quello del re. E subito, ecco sorgere dal nulla la nuova, meravigliosa dimora di Aladino e della sua sposa.

Tutto, dunque, sembrava procedere per il meglio. E non ci sarebbero state complicazioni di sorta nella vita dei due, se non fosse accaduto che il mago che aveva cercato d’ingannare Aladino, rimpiangendo continuamente la lampada perduta, non avesse insistito nei suoi esperimenti per sapere che cosa ne fosse stato del ragazzo, se egli fosse morto davvero nel profondo della caverna. Seppe così che non solo Aladino era vivo, ma possedeva, oltre all’anello, anche la lampada magica. Perciò, pieno di stizza, ripartì alla volta dell’Arabia.

Quando vide lo splendido palazzo di Aladino, una rabbiosa invidia prese a tormentarlo. Non volendosi arrendere alla fortuna dell’altro, si travestì da mercante, attese che Aladino accompagnasse il re in un viaggio nei reami vicini, si fece ricevere dalla principessa e, un po’ con parole sdolcinate, un po’ per magia, la trasse in inganno. Le fece credere cioè che la lampada custodita dal suo sposo era vecchia e non valeva nulla: gliela avrebbe cambiata con una bella lampada nuova.

La principessa, ignara di tutto, accettò. Avuta fra le mani, finalmente, la lampada magica, il mago ordinò al genio di trasportare il palazzo di Aladino, con tutti i suoi abitanti, in Africa. E il genio non poté far altro che ubbidire. Non appena tornato dal viaggio, non vedendo più né il palazzo né la principessa, Aladino comprese ciò che era accaduto. Ma non si perse d’animo. Strofinò l’anello che aveva ricevuto tanto tempo prima dal mago e che sempre portava al dito.

Rapido apparve il primo genio, quello che lo aveva salvato dalla caverna dove il mago lo aveva rinchiuso.
"Riportami subito qui mia moglie e il mio palazzo, ovunque essi siano", gli ordinò Aladino.
Gli rispose il genio: "Ogni tuo desiderio per me è un ordine, padrone. Ma questo non posso esaudirlo. Perché l’incantesimo è stato compiuto dal genio della lampada, che è molto più potente di me".

"E allora portami dalla principessa", disse Aladino.
In men che non si dica, era già in Africa, nel suo palazzo, al fianco della sua sposa, disperata, in lacrime, perché temeva di dover dire addio per sempre ad Aladino, al padre, al suo Paese.
La felicità dei due, quando si riabbracciarono, è facile da immaginare.
"E adesso", disse Aladino alla principessa, dopo averle confidato la sua lunga avventura con il mago, "ci riprendiamo la lampada".
"Ma come?", rispose lei, dubbiosa.
"È facile. Inviti a cena il mago, che essendo un grande vanitoso, si lascerà conquistare dai tuoi complimenti. E tu gliene farai tanti..."
"Io, Aladino, fargli dei complimenti?".
"Sì, mia diletta. E lo farai bere tanto. Anzi, per essere più sicuri, metterai del sonnifero nella sua coppa di vino".
"Ho capito", sorrise la principessa.

Tutto avvenne secondo il previsto. Non appena il mago si addormentò, Aladino, che fino ad allora s’era tenuto nascosto, venne fuori, tolse la lampada dalle mani del mago e la strofinò. Ed ecco apparire il genio.
"Tu, genio", comandò Aladino, "porta questo mago dove nessuno lo possa mai più trovare. E riporta questo palazzo, con tutto ciò che contiene, in Arabia".
Così avvenne.
E in Persia, Aladino e la principessa vissero felici, a lungo.
Potrebbe darsi che, a cercarli proprio bene, magari con l’aiuto di qualche genio, si riesca ancora oggi a trovarli là.

Il cammello e la formica

Questa favola breve racconta dell’incontro tra un cammello e una formica e sottolinea l’importanza dell’essere liberi.

Una volta un cammello, mentre attraversava la steppa, vide ai suoi piedi nell'erba una minuscola formica. La piccolina trasportava un grosso fuscello, dieci volte più grosso di lei. Il cammello restò un bel pezzo a guardare come la formica si dava da fare, poi disse:

  • Più ti guardo e più ti ammiro. Tu porti sulle spalle, come se niente fosse, un carico dieci volte più grosso di te. lo invece non porto che un sacco, e le ginocchia mi si piegano. Come mai?
  • Come mai? - rispose la formica, fermandosi un momento. - Ma è semplice: io lavoro per me stessa, mentre tu lavori per un padrone.

Si rimise il fuscello sulle spalle e riprese il suo cammino.

I tre pesci

Questa favola narra la disavventura di tre poveri pesciolini che entrano in contatto con un pescatore.

C'erano una volta tre pesci che vivevano in uno stagno: uno era intelligente, un altro lo era a metà e il terzo era stupido. La loro vita era quella di tutti i pesci di questo mondo, finché un giorno arrivò un uomo.

L'uomo portava una rete e il pesce intelligente lo vide attraverso l'acqua. Facendo appello all'esperienza, alle storie che aveva sentito e alla propria intelligenza, il pesce decise di passare all'azione.

"Dato che ci sono pochi posti dove nascondersi in questo stagno, farò finta di essere morto", pensò. Raccolte tutte le sue forze, balzò fuori dall'acqua e atterrò ai piedi del pescatore, che si mostrò piuttosto sorpreso. Tuttavia, visto che il pesce tratteneva il respiro, l'uomo lo credette morto e lo ributtò nello stagno. Allora il nostro pesce si lasciò scivolare in una piccola cavità sotto la riva.

Il secondo pesce, quello semintelligente, non aveva capito bene quanto era accaduto. Raggiunse quindi il pesce intelligente per chiedergli spiegazioni. "Semplice", disse il pesce intelligente, "ho fatto finta di essere morto e così mi ha ributtato in acqua".
Immediatamente, il pesce semintelligente balzò fuori dall'acqua e cadde ai piedi del pescatore.

"Strano", pensò il pescatore, "tutti questi pesci che saltano fuori dappertutto!". Ma il pesce intelligente si era dimenticato di trattenere il respiro, così il pescatore si accorse che era vivo e lo mise nel suo secchio. Riprese quindi a scrutare la superficie dell'acqua, ma lo spettacolo di quei pesci che atterravano sulla riva, ai suoi piedi, lo aveva in qualche modo turbato, sicché si dimenticò di chiudere il secchio. Quando il pesce se ne accorse, riuscì faticosamente a scivolare fuori e a riguadagnare lo stagno a piccoli salti. Andò a raggiungere il primo pesce e, ansimando, si nascose accanto a lui.

Ora, il terzo pesce, quello Stupido, non era naturalmente in grado di trarre vantaggio dagli eventi, neanche dopo aver ascoltato il racconto del primo e del secondo pesce. Allora riesaminarono ogni dettaglio con lui, sottolineando l'importanza di non respirare quando si finge di essere morti.
"Molte grazie, adesso ho capito!"; disse il pesce stupido, e con quelle parole si lanciò fuori dall'acqua e andò ad atterrare proprio accanto al pescatore. Ora, il pescatore, che aveva già perso due pesci, lo mise subito nel secchio senza preoccuparsi di verificare se respirava o no. Poi lanciò ancora ripetutamente la sua rete nello stagno, ma i primi due pesci erano ormai al sicuro nella cavità sotto la riva. E questa volta il suo secchio era ben chiuso.

Il pescatore finì per rinunciare. Aprì il secchio, si accorse che il pesce stupido non respirava, lo portò a casa e lo diede da mangiare al gatto.

Il principe serpente

Questa è la storia di un principe che si trasforma in serpente e di una ragazza che s’innamora di lui.

C'erano una volta un re ed un visir che erano amici da lunga data: entrambe le loro mogli aspettavano un bambino e decisero che se fossero nati un bambino e una bambina li avrebbero poi fidanzati e fatti sposare. Ma quando nacquero, la moglie del re ebbe un serpente, mentre la moglie del visir una bellissima bambina.

La bambina e il serpente crebbero insieme, malgrado tutto: la bambina era contenta del suo amico, per lei non era un animale ripugnante. Un giorno, erano ormai grandi, i due stavano giocando insieme quando di colpo la pelle del serpente cadde e venne fuori un bellissimo giovane.

Poco dopo il ragazzo riprese le sembianze del serpente. Non visto, il re aveva assistito a tutto e chiese alla giovane di fare in modo che il figlio non diventasse più un serpente. Quando il principe riprese la forma umano la ragazza gli bruciò la pelle di serpente. Lui allora la guardò e scomparve. Disperata, la ragazza non sapeva più a chi rivolgersi.

Un giorno incontrò una vecchia maga, che le disse:

  • Il tuo amato è lontano da qui: dovrai consumare sette paia di scarpe per trovarlo!
    La ragazza allora partì attraverso strade, boschi, deserti e il giorno in cui finì di consumare il settimo paio di scarpe arrivò vicino ad un castello cupo, incastrato su una montagna.
    Fuori c'era un leone malconcio, che le chiese qualcosa da mangiare: lei gli diede l'ultimo pezzo di carne che le era rimasto.

Poi trovò delle formiche, che le chiesero di aiutarle a ricostruire il proprio formicaio: lei fece come le era stato chiesto. Infine, sulla porta del castello c'era la porta che scricchiolava e lei usò l'ultimo olio che aveva per oliarla.

Entrò nel castello, in cui viveva un genio malefico, che aveva imprigionato il suo principe.
Lo trovò incatenato e lo liberò. Ma il genio si buttò al loro inseguimento.
Urlò alla porta:- Chiuditi e non lasciarli uscire!
Ma la porta gli rispose:- Lei mi ha unto ed ha avuto cura di me, non posso non lasciarla uscire!
Allora disse alle formiche:- Pungeteli e fermateli!
Ma le formiche risposero:- Non possiamo: lei ci ha aiutato!
Per finire il genio urlò al leone: -Sbranali!

  • No, non posso, lei mi ha dato da mangiare!
    Il genio non poteva allontanarsi troppo dal castello e si disintegrò nell'aria.

La ragazza e il principe tornarono al loro Paese dove si sposarono e vissero felici e contenti.

Fiabe brevi Fedro

Le fiabe di Fedro sono le più famose dell’antichità. Le sue vicende sono caratterizzate da un intento morale e pedagogico. In questa sezione abbiamo raccolto le migliori.

La rondine e il passero

Questa favola pone in evidenza il fatto di come molte persone tendano a prendere in giro gli altri, i loro difetti, senza rendersi conto dei propri.

La rondine e il passero erano appollaiati sullo stesso ramo di un albero. A un certo punto, il passero disse alla rondine: “Quando viene il freddo, tu devi fare viaggi lunghissimi e volare dall’altra parte del mondo. Che vita orribile che è la tua!”

La rondine di rimando gli rispose: “Quando la neve ricopre i prati e i campi, tu rimani qui e tremi di freddo. Cerchi rifugio sotto i tetti e non trovi più cibo. Mi sembra che anche la tua vita non sia tutta rosa e fiori… Forse sarebbe meglio che, invece di lamentarti per la mia condizione, ti lamentassi per la tua!”.

Il cane, il tesoro, l’avvoltoio

Questa storia racconta di un cane che a causa di un sortilegio diventa avido di ricchezza.

C’era una volta un cane che mentre scavava tra le ossa dei defunti trovò un tesoro. La cosa fece stizzire lo spirito dei morti il quale, indignato, volle punire l’oltraggio compiuto. Per espiazione, all’animale fu instillata la goccia dell’avidità e un’irrefrenabile desiderio di ricchezza. Accadde così che per la cupidigia di stare lì di guardia ad ammirare il tesoro, alla povera bestiola passò del tutto l’appetito.

Trascorsero giorni e poi settimane e il cane non aveva toccato né cibo e né acqua. Nel momento in cui stava per morire, c’è chi giura di aver udito un avvoltoio appollaiato su un ramo che gli avrebbe detto: “Ben ti sta! Volevi per te le ricchezze di un re dimenticando che sei stato concepito nel fango ed allevato nel letame!”.

Il cavallo e il cinghiale

In questa vicenda, Fedro narra di una lite tra un cavallo e un cinghiale.

C’era una volta un cavallo selvaggio che tutti i giorni andava ad abbeverarsi presso una pozza d’acqua poco profonda.

Un mattina alla pozza vi trovò un cinghiale che sguazzando nella fanghiglia offuscandone l’acqua. Il cavallo biasimò il cinghiale e lo invitò a fare più attenzione. Ma il cinghiale si offese e ne nacque una furibonda lite tra i due. Preso dall’ira lo stallone si recò dall’uomo per chiedere il suo aiuto. “Io lo ucciderò – disse l’uomo – ma tu mi devi far salire sulla tua groppa”.

Il cavallo accettò e insieme andarono a cercare il cinghiale. Lo trovarono e il cavaliere con una lancia centrò al cuore la preda. “Grazie – disse il cavallo – adesso puoi scendere dalla mia schiena così che io potrò andare a bere”. Ma l’uomo non ci pensava nemmeno a smontare di sella, anzi, tirò le redini e strinse più forte il morso, poi disse: “Adesso tu sarai il mio destriero”. “Povero me – pensò il cavallo – il cinghiale era poca roba in confronto a quest’uomo”.

Due uomini calvi e il pettine

Questa fiaba narra la vicenda di due uomini calvi che trovano un pettine lungo la strada.

C’era una volta un signore senza capelli che tutte le mattine passeggiava per le strade della città.

Un giorno, mentre l’uomo calvo si trovava ad attraversare un trivio, vide un pettine adagiato sul manto stradale. Intanto che si chinava per raccoglierlo da terra si avvicinò a lui un altro signore, anch’egli con la testa pelata il quale gli disse: “Ehi tu, qualunque cosa abbia raccolto dal suolo, è doveroso che adesso lo divida in parti uguali con me.”

L’altro gli scrutò prima la testa, poi lo guardò negli occhi, infine, con compostezza, gli mostrò l’oggetto che aveva raccattato ed esclamò: “La volontà degli dei ci è propizia, ma è il destino implacabile che non ha avuto affatto benevolenza verso di noi. Come si suol dire in questi casi: Credevamo fosse oro invece è solo dell’inutile carbone.”

La cornacchia vanitosa

Questa fiaba veicola un insegnamento importante: è meglio accettarsi e volersi bene per ciò che si è, invece di cercare di essere qualcuno di diverso.

C’era una volta una cornacchia, tutta nera. Un giorno, mentre volava sopra il bosco, vide su un prato dei bellissimi pavoni. Si fermò quindi sopra il ramo di un albero ad ammirarli. I pavoni si accorsero presto che la cornacchia stava appollaiata lì sul ramo ad osservarli, e, da gran vanitosi che erano, fecero tutti la ruota con la coda.

La cornacchia, abbagliata dalla bellezza della loro coda, volò via. Andò così a specchiarsi nell’acqua dello stagno, e si vide così brutta che decise di non mostrarsi più in giro per la vergogna. Invidiosa del magnifico comportamento e delle splendide piume dei pavoni, iniziò a spiarli ogni giorno in gran segreto, da un albero un po’ più nascosto del precedente.

La cornacchia si accorse così che, sparse per il prato, c’erano delle penne cadute dalle code dei pavoni e lasciate lì sul prato. Decise, quindi, di aspettare il tramonto per poterle andare a prendere di nascosto.

Non appena riuscì a raccoglierne cinque, volò via e andò a nascondersi in un posto riparato, dove con un po’ di colla le attaccò alla sua coda. Il mattino dopo andò ad ammirare nelle acque dello stagno la sua nuova coda di pavone, pensando: “Adesso sono anche io bella come i pavoni. Andrò dalle mie compagne cornacchie e le farò morire di invidia!”.

La cornacchia andò quindi dalle sue compagne, che, vedendola, iniziarono veramente a morir d’invidia. Quella coda con le penne di pavone era davvero bellissima.