Le fiabe della buonanotte più belle

di Elisabetta Rossi

Le fiabe della buonanotte aiutano i bambini a rilassarsi e a prendere sonno. Nell'articolo abbiamo raccolto le più belle.

Indice

Le fiabe della buonanotte sono uno strumento educativo importante e un modo per aiutare i bambini a rilassarsi e a prendere sonno con maggior facilità. Grazie a queste storie si possono trasmettere ai propri figli valori importanti come il rispetto verso il prossimo e l'amore nei confronti degli animali e dei propri simili.

Di favole per la nanna ne esistono di vari generi, i protagonisti sono principesse, principi, persone comuni, animali o anche creature fantastiche. Il lieto fine è assicurato e ogni fiaba contiene una morale, un insegnamento di cui tenere conto per vivere in armonia nella società.

Le fiabe della buonanotte dovrebbero essere lette ai bambini quando sono già a letto, con una luce soffusa e un tono di voce morbido, non troppo alto per favorire il loro addormentamento. Esse vi faranno anche sentire più vicini ai vostri piccoli e trasmetteranno loro tutto il vostro affetto.

Fiabe della buonanotte da leggere

Ecco per voi una raccolta di storie per bambini da leggere ogni sera. Siamo sicuri che le ameranno!

Il leone e il topo di Esopo

È una delle storie più conosciute di Esopo che trasmette un messaggio importante: quello di dare una mano agli altri.

Un leone catturò un topolino tra le sue zampe, con l’intenzione di mangiarlo. Il topolino, però, implorò il grosso animale di risparmiargli la vita.

“In cambio, avrai la mia amicizia e un giorno ti restituirò il favore” gli disse il roditore. Il leone fu convinto da queste parole, e liberò il topolino, che andò per la sua strada.
Qualche tempo dopo, il topolino stava attraversando la savana quando vide sul limitare della boscaglia due cacciatori, che avevano preso il leone con una trappola. I due legarono stretto il leone ad un albero, poi accesero un fuoco per la notte. Col buio, il topolino si avvicinò all’albero e rosicchiò tutte le corde che tenevano legato il leone. Così facendo, liberò il felino che riuscì a scappare.

La colomba e la formica di Esopo

Un’altra favola in cui Esopo racconta dell’amicizia tra due animali molto diversi tra loro.

Una formica assetata andò sulla riva di un ruscello per bere, ma una raffica di vento la fece scivolare e la poverina cadde in acqua. La formica non sapeva nuotare e fu trascinata a largo dalla corrente del ruscello. “Aiuto!” gridò, “Aiutatemi! Sto annegando”. In quel momento passò di lì una giovane colomba che udì le grida della formichina. Strappò un ramoscello da un albero e lo avvicinò alla formica, che riuscì ad afferrarlo e così si salvò. Qualche tempo dopo, mentre la formica stava portando una briciola di pane nel suo formicaio vide un cacciatore appostato nel prato. Più in alto, sul ramo di una quercia, era posata proprio la colomba che l’aveva salvata dal ruscello.

“Devo fare qualcosa” pensò la formichina, “o il cacciatore le sparerà”. Si avvicinò di soppiatto e morsicò con tutta la forza che aveva la mano del cacciatore. L’uomo si chinò per vedere cosa lo aveva pizzicato e perse la mira mentre la colomba lo scoprì e scappò lontano. Con il suo coraggio, la formica salvò la vita alla colomba e da quel giorno i due animali divennero amici.

L’asino che portava il sale di Esopo

Questa favola veicola il messaggio che chi vuole trovare scorciatoie nella vita, finisce con l’avere la peggio.

Un asino che portava un carico di sale si trovò a dover attraversare un fiume; tuttavia, l’asino scivolò e cadde in acqua: così, tutto il sale che portava nei cesti sulla schiena si sciolse e l’animale si rialzò con un carico molto più leggero. L’asino fu ben contento della cosa! Qualche tempo dopo, lo stesso asino stava portando un carico di spugne sulla riva di un fiume; ricordandosi di quello che era successo con il sale, pensò che se si fosse lasciato cadere in acqua, anche questa volta il carico sarebbe diventato più leggero. Questa volta, le spugne imbevute d’acqua si gonfiarono, così tanto che l’asino, a causa del loro peso, non riuscì più ad uscire dall’acqua e fu trascinato via dalla corrente.

La volpe e la maschera di Fedro

Questa fiaba brevissima racconta di una volpe che un giorno trova una maschera. La morale in essa contenuta dice che spesso chi è bello non dimostra altrettanta intelligenza.

Una volpe, una volta, entrò in un teatro e, mentre frugava in mezzo ai costumi, trovò una maschera in argilla, modellata alla perfezione. La volpe sollevò la maschera e, tenendola tra le zampe, esclamò ridendo: “Che testa magnifica! Peccato però che non abbia un cervello”.

La cornacchia e la pecora di Fedro

Questa favola dimostra come la maggior parte delle persone attacchi i deboli e lasci stare i forti.

Una cornacchia planò sulla schiena di una pecora e rimase lì, tenendosi saldamente ancorata con i suoi artigli affilati.

La pecora, dopo un po’ si voltò verso l’uccellaccio e le disse: “Prova a posarti sul dorso del lupo, e vedrai. Devi solo ringraziare gli dei che non mi hanno dato i denti affilati e i riflessi del lupo”.
Ma la cornacchia rispose: “Mia cara, per fortuna so distinguere i forti dai deboli e mi approfitto di conseguenza”.

Il gatto con gli stivali di Charles Perrault

Questa favola racconta di un giovane che riceve un gatto in eredità dal padre. L’animale poco dopo gli chiede di avere un paio di stivali.

Un mugnaio, venuto a morte, non lasciò altri beni ai suoi tre figliuoli che aveva, se non il suo mulino, il suo asino e il suo gatto. Così le divisioni furono presto fatte, né ci fu bisogno dell’avvocato e del notaro; i quali, com’è naturale, si sarebbero mangiata in un boccone tutt’intera la piccola eredità. Il maggiore ebbe il mulino. Il secondo, l’asino. E il minore dei fratelli ebbe solamente il gatto.

Quest’ultimo non sapeva darsi pace, per essergli toccata una parte così meschina. “I miei fratelli”, faceva egli a dire, “potranno tirarsi avanti onestamente, menando vita in comune: ma quanto a me, quando avrò mangiato il mio gatto, e fattomi un manicotto della sua pelle, bisognerà che mi rassegni a morir di fame.”

Il gatto, che sentiva questi discorsi, e faceva finta di non darsene per inteso, gli disse con viso serio e tranquillo: “Non vi date alla disperazione, padron mio! Voi non dovete far altro che trovarmi un sacco e farmi fare un paio di stivali per andare nel bosco; e dopo vi farò vedere che nella parte che vi è toccata, non siete stato trattato tanto male quanto forse credete”. Sebbene il padrone del gatto non pigliasse queste parole per moneta contante, a ogni modo gli aveva visto fare tanti giochi di destrezza nel prendere i topi, or col mettersi penzoloni, attaccato per i piedi, or col fare il morto, nascosto dentro la farina, che finì coll’aver qualche speranza di trovare in lui un po’ di aiuto nelle sue miserie.

Appena il gatto ebbe ciò che voleva, s’infilò bravamente gli stivali, e mettendosi il sacco al collo, prese le corde colle zampe davanti e se ne andò in una conigliera, dove c’erano moltissimi conigli. Pose dentro al sacco un po’ di crusca e della cicerbita: e sdraiandosi per terra come se fosse morto, aspettò che qualche giovine coniglio, ancora novizio dei chiapperelli del mondo, venisse a ficcarsi nel sacco per la gola di mangiare la roba che c’era dentro. Appena si fu sdraiato, ebbe subito la grazia. Eccoti un coniglio, giovane d’anni e di giudizio, che entrò dentro al sacco: e il bravo gatto, tirando subito la funicella, lo prese e l’uccise senza pietà né misericordia. Tutto glorioso della preda fatta andò dal Re, e chiese di parlargli. Lo fecero salire nei quartieri del Re, dove entrato che fu fece una gran riverenza al Re, e gli disse: “Ecco, Sire, un coniglio di conigliera che il signor marchese di Carabà”, era il nome che gli era piaciuto di dare al suo padrone, “mi ha incaricato di presentarvi da parte sua”. “Di’ al tuo padrone” rispose il Re “che lo ringrazio e che mi ha fatto un vero regalo.”

Un’altra volta andò a nascondersi fra il grano, tenendo sempre il suo sacco aperto; e appena ci furono entrate dentro due pernici, tirò la corda e le acchiappò tutte e due. Corse quindi a presentarle al Re, come aveva fatto per il coniglio di conigliera. Il Re gradì moltissimo anche le due pernici e gli fece dare la mancia. Il gatto in questo modo continuò per due o tre mesi a portare di tanto in tanto ai Re la selvaggina della caccia del suo padrone.

Un giorno avendo saputo che il Re doveva recarsi a passeggiare lungo la riva del fiume insieme alla sua figlia, la più bella Principessa del mondo, disse al suo padrone: “Se date retta a un mio consiglio, la vostra fortuna è fatta: voi dovete andare a bagnarvi nel fiume, e precisamente nel posto che vi dirò io: quanto al resto, lasciate fare a me”.

Il marchese di Carabà fece tutto quello che gli consigliò il suo gatto, senza sapere a che cosa gli avrebbe potuto giovare. Mentre egli si bagnava, il Re passò di là; e il gatto si messe a gridare con quanta ne aveva in gola: “Aiuto, aiuto! affoga il marchese di Carabà”. A queste grida, il Re messe il capo fuori dallo sportello della carrozza e, riconosciuto il gatto, che tante volte gli aveva portato la selvaggina, ordinò alle guardie che corressero subito in aiuto del marchese di Carabà. Intanto che tiravano su, fuori dell’acqua, il povero Marchese, il gatto avvicinandosi alla carrozza raccontò al Re che mentre il suo padrone si bagnava, i ladri erano venuti a portargli via i suoi vestiti, sebbene avesse gridato al ladro con tutta la forza dei polmoni. Il furbo trincato aveva nascosto i panni sotto un pietrone.

Il Re diede ordine subito agli ufficiali della sua guardaroba di andare a prendere uno dei più sfarzosi vestiari per il marchese di Carabà. Il Re gli usò mille carezze, e siccome l’abito che gli avevano portato in quel momento faceva spiccare i pregi della sua persona (perché era bello e benissimo fatto), la Principessa lo trovò simpatico e di suo genio: e bastarono poche occhiate del marchese di Carabà, molto rispettose ma abbastanza tenere, perché ella ne rimanesse innamorata cotta. Volle il Re che salisse nella sua carrozza, e facesse la passeggiata con essi.

Il gatto, contentissimo di vedere che il suo disegno cominciava a pigliar colore, s’avviò avanti; e avendo incontrato dei contadini, che segavano, disse loro: “Buona gente che segate il fieno, se non dite al Re che il prato segato da voi appartiene al marchese di Carabà, sarete tutti affettati fini fini come carne da far polpette”. Il Re infatti domandò ai segatori di chi fosse il prato che segavano. “È del marchese di Carabà”, dissero tutti a una voce perché la minaccia del gatto li aveva impauriti. “Voi avete di bei possessi”, disse il Re al marchese di Carabà. “Lo vedete da voi, Sire”, rispose il Marchese. “Questa è una prateria, che non c’è anno che non mi dia una raccolta abbondantissima.” Il bravo gatto, che faceva sempre da battistrada, incontrò dei mietitori, e disse loro: “Buona gente che segate il grano, se non direte che tutto questo grano appartiene al signor marchese di Carabà, sarete stritolati fini fini come carne da far polpette”. Il Re, che passò pochi minuti dopo, volle sapere a chi appartenesse tutto il grano che vedeva. “È del signor marchese di Carabà”, risposero i mietitori. E il Re se ne rallegrò col Marchese. Il gatto, che trottava sempre avanti la carrozza, ripeteva sempre le medesime cose a tutti quelli che incontrava lungo la strada; e il Re rimaneva meravigliato dei grandi possessi del signor marchese di Carabà.

Finalmente il gatto arrivò a un bel castello, di cui era padrone un orco, il più ricco che si fosse mai veduto; perché tutte le terre, che il Re aveva attraversate, dipendevano da questo castello. Il gatto s’ingegnò di sapere chi era quest’uomo, e che cosa sapesse fare: e domandò di potergli parlare, dicendo che gli sarebbe parso sconvenienza passare così accosto al suo castello senza rendergli omaggio e riverenza. L’orco l’accolse con tutta quella cortesia che può avere un orco; e gli offrì da riposarsi. “Mi hanno assicurato”, disse il gatto, “che voi avete la virtù di potervi cambiare in ogni specie d’animali; e che vi potete, per dirne una, trasformare in leone e in elefante.” “Verissimo!”, rispose l’orco bruscamente, “e per darvene una prova, mi vedrete diventare un leone.” Il gatto fu così spaventato dal vedersi dinanzi agli occhi un leone, che s’arrampicò subito su per le grondaie, ma non senza fatica e pericolo, a cagione dei suoi stivali, che non erano buoni a nulla per camminare sulle grondaie de’ tetti. Di lì a poco, quando il gatto si avvide che l’orco aveva ripresa la sua forma di prima, calò a basso e confessò di avere avuto una gran paura. “Mi hanno per di più assicurato”, disse il gatto, “ma questa mi par troppo grossa e non la posso bere, che voi avete anche la virtù di prendere la forma dei più piccoli animali; come sarebbe a dire, di cambiarvi, per esempio, in un topo o in una talpa: ma anche queste son cose, lasciate che ve lo ripeta, che mi paiono sogni dell’altro mondo!” “Sogni?”, disse l’orco. “Ora vi farò veder io!…” E nel dir così, si cangiò in sorcio, e si messe a correre per la stanza. Ma il gatto, lesto come un baleno, gli s’avventò addosso e lo mangiò.

Intanto il Re che, passando da quella parte, vide il bel castello dell’orco, volle entrarvi. Il gatto, che sentì il rumore della carrozza che passava sul ponte-levatoio del castello, corse incontro al Re e gli disse: “Vostra Maestà sia la benvenuta in questo castello del signor marchese di Carabà”. “Come! signor Marchese!”, esclamò il Re. “Anche questo castello è vostro? Non c’è nulla di più bello di questo palazzo e delle fabbriche che lo circondano; visitiamolo all’interno, se non vi scomoda.” Il Marchese dette la mano alla Principessa; e seguendo il Re, che era salito il primo, entrarono in una gran sala, dove trovarono imbandita una magnifica merenda, che l’orco aveva fatta preparare per certi suoi amici che dovevano venire a trovarlo, ma che non avevano ardito di entrar nel castello, perché sapevano che c’era il Re. Il Re, contento da non potersi dire, delle belle doti del marchese di Carabà, al pari della sua figlia, che n’era pazza, e vedendo i grandi possessi che aveva, dopo aver vuotato quattro o cinque bicchieri, gli disse: “Signor Marchese! se volete diventare mio genero, non sta che a voi”. Il marchese, con mille reverenze, gradì l’alto onore fattogli dal Re, e il giorno dopo sposò la Principessa. Il gatto diventò gran signore, e se seguitò a dar la caccia ai topi, lo fece unicamente per passatempo.

Godersi in pace una ricca eredità, passata di padre in figlio, è sempre una bella cosa: ma per i giovani, l’industria, l’abilità e la svegliatezza d’ingegno valgono più d’ogni altra fortuna ereditata.
Da questo lato, la storia del gatto del signor marchese di Carabà è molto istruttiva, segnatamente per i gatti e per i marchesi di Carabà.

L’angelo di Hans Christian Andersen

L’angelo è una fiaba malinconica ma aiuta i bambini a comprendere un evento complesso e doloroso qual è quello della morte.

Ogni volta che un bambino buono muore, scende sulla terra un angelo del Signore, prende in braccio il bimbo morto, allarga le grandi ali bianche e vola in tutti i posti che il bambino ha amato, poi coglie una manciata di fiori, che porta a Dio affinché essi fioriscano ancora più belli che sulla terra. Il buon Dio tiene i fiori sul suo cuore, ma a quello che ha più caro di tutti dà un bacio, e questo riceve la voce e può cantare col coro dei beati.

Tutto questo veniva raccontato da un angelo del Signore, mentre portava un bambino morto in cielo, e il bambino lo sentiva come in sogno; e volavano per la casa, nei luoghi dove il bambino aveva giocato, e poi nei deliziosi giardini pieni di fiori bellissimi.

«Quale dobbiamo prendere da piantare in cielo?» chiese l’angelo.
Nel giardino si trovava un alto roseto, ma un uomo cattivo aveva spezzato il fusto, così tutti i rami, pieni di grandi gemme sbocciate a metà, si erano piegati e appassivano.
«Povera pianta» disse il bambino «prendi quella, così potrà fiorire presso Dio!»

E l’angelo raccolse quella pianta, e diede un bacio al bambino, così egli aprì un po’ gli occhietti. Colsero quei magnifici fiori, ma presero anche la disprezzata calendula e la selvatica viola del pensiero.
«Adesso abbiamo i fiori!» disse il bambino, e l’angelo annuì, ma ancora non volarono verso Dio. Era notte e c’era silenzio; rimasero nella grande città e volarono in una delle strade più strette, dove si trovava un mucchio di paglia, cenere e spazzatura: c’era stato un trasloco; dappertutto c’erano pezzi di piatti, schegge di gesso, cenci e vecchi cappelli sgualciti, tutte cose molto brutte.

E l’angelo indicò, in tutta quella confusione, alcuni cocci di un vaso di fiori; lì vicino c’era una zolla di terra che era caduta fuori dal vaso, ma che era rimasta compatta a causa delle radici di un grande fiore di campo appassito, che non valeva più nulla e per questo era stato gettato.
«Portiamolo con noi! » disse l’angelo «poi, mentre voliamo, ti racconterò perché.»
E così volarono e l’angelo raccontò:
«Laggiù, in quella strada stretta, in un seminterrato, viveva un povero ragazzo ammalato; fin da piccolo era rimasto sempre a letto, quando proprio si sentiva bene poteva camminare per la stanza con le stampelle, ma non poteva fare altro. In certi giorni d’estate i raggi del sole arrivavano per una mezz’ora nella stanzetta del seminterrato, allora il ragazzino si metteva seduto a sentire il caldo sole su di lui e guardava il sangue rosso che scorreva nelle sue dita sottili, che teneva davanti al viso; in quei giorni si poteva dire: «Oggi il piccolo è uscito!». Conosceva il verde primaverile del bosco solo perché il figlio del vicino gli portava il primo ramo di faggio con le foglie e se lo alzavano sul capo e sognava di trovarsi sotto i faggi col sole che splendeva e gli uccelli che cantavano. Un giorno di primavera il figlio del vicino gli portò anche dei fiori di campo, e tra questi ce n’era per caso uno ancora con le radici: perciò fu piantato in un vaso e messo sulla finestra vicino al letto. Il fiore, piantato da una mano amorevole, crebbe, mise nuovi germogli e ogni anno fiorì. Questo divenne il giardino meraviglioso del ragazzo malato, il suo piccolo tesoro sulla terra. Lo bagnava e lo curava e si preoccupava che ricevesse anche l’ultimo raggio di sole, che penetrava dalla bassa finestrella; e il fiore cresceva anche nella fantasia del ragazzo, perché fioriva per lui, per lui emanava il suo profumo e gli rallegrava la vista. E quando il Signore chiamò il ragazzo, egli si volse, morendo, verso quel fiore. Da un anno è ormai presso Dio, e per un anno intero il fiore è rimasto abbandonato sulla finestra e è appassito. Per questo è stato gettato tra la spazzatura durante il trasloco. E proprio quel fiore, quel povero fiore appassito noi l’abbiamo messo nel nostro mazzo, perché quel fiore ha portato più gioia che non il più bel fiore del giardino reale.»

«Ma come sai tutte queste cose?» domandò il bambino che l’angelo portava in cielo.
«Lo so, perché ero io stesso quel povero ragazzo malato che camminava con le stampelle!» spiegò l’angelo. «E conosco bene il mio fiore!».

I desideri inutili di Charles Perrault

Questa favola, sebbene risalga al Seicento, è ancora molto attuale in quanto insegna a cogliere al volo i colpi di fortuna che possono capitare nella vita.

C’era una volta un povero boscaiolo che, stanco della sua faticosa vita, aveva una gran voglia, a quanto diceva, di andarsi a riposare nell’altro mondo. Infatti, dal giorno che era nato, la Provvidenza non aveva mai soddisfatto uno solo dei suoi desideri. Un giorno che si lamentava così nel bosco, ecco apparirgli, con tanto di fulmini in mano, Giove in persona. Figuratevi la paura che ebbe il pover’uomo. “Non desidero nulla” disse lui gettandosi con il naso a terra. “Niente desideri da parte mia, niente fulmini da parte vostra; signor mio, facciamo come se nulla fosse stato”. “Non aver paura” gli rispose Giove, “i tuoi lamenti mi hanno commosso e io vengo a dimostrarti che mi fai torto. Stammi bene a sentire: io, che sono il padrone del mondo intero, ti prometto di esaudire i primi tre desideri che tu formulerai su qualsiasi soggetto. Cerca quello che ti può rendere felice, cerca quello che ti può dar soddisfazione e, poiché la tua fortuna dipende dalle tue richieste, pensaci bene prima di pronunciarle.”

Così detto Giove se ne risalì in cielo e il boscaiolo, tutto allegro, abbracciò in mancanza di meglio le sue fascine, se le mise in spalla per tornare a casa e mai quel peso gli era parso tanto leggero. “In questa faccenda” diceva fra se trottando sulla via del ritorno, “non bisogna agire alla leggera. Si tratta di un caso interessante e sarà bene che mi consigli con mia moglie.” Perciò appena entrato nella sua capanna di giunchi, incominciò a gridare: “Vieni qua, Beppina, facciamo un bel fuoco e stiamo allegri, ormai siamo ricchi, ci resta solo da esprimere un desiderio!”. E le raccontò tutto. A sentire il fatto, sua moglie si sentì brulicare in testa un mucchio di desideri, ma capì che l’affare era serio e che bisognava andar cauti. “Amico Biagio” disse a suo marito – non sciupiamo l’occasione con la nostra impazienza e riflettiamo bene a qual partito ci dobbiamo rivolgere in simile occorrenza. Qui devi essere serio, prudente e circospetto: rimettiamo a domani il primo desiderio e intanto andiamo a letto.” “Giusto” convenne quel brav’ uomo di Biagio. “Ma vammi a prendere un po’ di vino dietro quelle fascine.”

Quando lei fu tornata col vino, Biagio bevve e schioccò la lingua contento allungandosi sulla sedia presso il fuoco. Poi, preso dal piacere del riposo, disse: “Con un così bel fuoco, come verrebbe a proposito una bella focaccia!” Non aveva ancor finito di parlare che sua moglie, piena di stupore, vide un’enorme focaccia spuntare dall’angolo del camino e avvicinarsi a lei. Diede subito un grido di meraviglia, ma non tardò a capire che quel portento era stato causato dal desiderio espresso da suo marito per pura stupidaggine e allora incominciò a rovesciar vituperi sullo sciagurato sposo. “Come si fa a desiderare una focaccia?” diceva, “quando si possono chiedere imperi, ori, perle, rubini, diamanti grossi come nocciole e abiti da regina?” “Bé, ho avuto torto” rispose lui, “ho sciupato un desiderio, ho commesso una grande baggianata, farò meglio un’ altra volta.” “Bel discorso”, rimbecco lei. “Per desiderare una cosa simile bisogna essere più bestia di un bue!”.

Il marito, che incominciava ad arrabbiarsi, per poco non espresse entro di sé il desiderio di essere vedovo, ma si trattenne. Tuttavia andò fuor dei gangheri lo stesso. “Gli uomini” gridò, “son proprio nati per tribolare. Accidenti alla focaccia e a quando l’ho desiderata. Dio volesse, brutta pecora, che ti si attaccasse al nas”. Subito il Ciel benigno la preghiera ascoltò e Biagio non l’aveva ancor finita che al naso della moglie inviperita quell’enorme focaccia si attaccò. Al prodigio, egli restò assai male: Beppina era graziosa e, a dirla francamente a chi vuol sapere, quell’ornamento in faccia alla sua sposa non ci faceva punto un bel vedere. Tuttavia, con quel ciondolo sul mento, fu subito evidente che non potea parlar a suo talento: vantaggio così chiaro e manifesto, per uno sposo, che, per un momento, pensò quasi di non chiedere più niente e rinunciare al resto. ‘ Certo ‘ pensava tra se, ‘ dopo una simile disgrazia, col desiderio che mi rimane potrei diventare re tutto d’un colpo. Nulla eguaglia, è vero, la grandezza di un sovrano, ma bisogna anche pensare alla faccia che avrebbe la regina e al dolore che proverebbe se la mettessi sul trono con un naso lungo quattro spanne. Bisogna consultarla in proposito e far decidere a lei stessa se preferisce diventare regina tenendosi quel terribile naso, o rimanere boscaiola con il naso che aveva prima ‘. La cosa fu considerata da ogni parte, e, sebbene ella conoscesse l’importanza di uno scettro e sapesse che, quando si è incoronati, si ha sempre un bel naso, tuttavia preferì riavere il suo bel nasino che essere brutta e regina. Così il boscaiolo rimase quello che era, non divenne monarca né si riempì la borsa di scudi; e fu felice di poter impegnare l’ultimo desiderio che gli restava per rimettere la moglie nella condizione di prima.

Scarpette rosse di Hans Christian Andersen

Questa fiaba pone in evidenza come i desideri vadano sempre gestiti e tenuti sotto controllo.

C’era una volta una povera orfana che non aveva scarpe. La bimba conservava tutti gli stracci che riusciva a trovare finchè un bel giorno riuscì a confezionarsi un paio di scarpette rosse. Erano rozze, ma le piacevano. La facevano sentire ricca nonostante trascorresse, fino a sera inoltrata, le sue giornate a cercare cibo nei boschi. Un giorno, mentre percorreva faticosamente una strada, vestita dei suoi stracci e con le scarpette rosse ai piedi, una carrozza dorata le si fermò accanto.

La vecchia signora che la occupava le disse che l’avrebbe portata a casa con sé e l’avrebbe trattata come una sua figlioletta. Così andarono nella dimora della vecchia signora ricca e là furono lavati e pettinati i capelli della bambina. Le furono dati biancheria fine, un bell’abito di lana e calze bianche e lucide scarpe nere. Quando la bambina chiese dei suoi vecchi abiti, e in particolare delle scarpette rosse, la vecchia le rispose che, sudici e ridicoli com’erano, li aveva gettati nel fuoco.

La bimba era molto triste perché quelle umili scarpette rosse che aveva fatto con le proprie mani le avevano dato la più grande felicità. Ora era costretta a stare sempre ferma e tranquilla, a parlare senza saltellare e soltanto se interrogata. Un fuoco segreto le si accese nel cuore e continuò a desiderare più di ogni altra cosa le sue vecchie scarpette rosse. Poiché la bambina era abbastanza grande da ricevere la cresima, la vecchia signora la portò da un vecchio calzolaio zoppo per acquistare una paio di scarpe speciali per l’occasione. In vetrina facevano bella mostra di sé un paio di scarpe rosse confezionate con la pelle più morbida che si possa trovare.

La bimba, spinta dal suo cuore affamato, subito le scelse. La vecchia signora ci vedeva così male che non si accorse del colore e gliele comprò. Il vecchio calzolaio strizzò l’occhio alla piccola e le incartò le scarpe. Il giorno dopo, in chiesa, tutti rimasero sorpresi da quelle scarpe rosse che brillavano come mele lustrate, come cuori, come prugne ben lavate. Ma alla bimba piacevano sempre di più. In giornata la vecchia signora venne a sapere delle scarpette rosse della sua pupilla. “Non mettere mai più quelle scarpe” le ordinò minacciosa. Ma la domenica dopo la bambina non potè fare a meno di mettersi le scarpette rosse e poi si avviò alla chiesa con la vecchia signora. Sulla porta della chiesa c’era un vecchio soldato con il braccio al collo. S’inchinò, chiese il permesso di spolverare le scarpe e toccò le suole cantando una canzoncina che le fece venire il solletico ai piedi. “Ricordati di restare per il ballo” e le strizzò l’occhio. Anche questa volta tutti guardarono con sospetto le scarpette rosse della bambina. Ma a lei piacevano tanto quelle scarpe lucenti, rosse come lamponi, come melagrane, che non riusciva a pensare ad altro. Era tutta intenta a girare e rigirare i piedini, tanto che si dimenticò di cantare.

Quando uscirono dalla chiesa, il vecchio soldato esclamò: “Che belle scarpette da ballo!”. A quelle parole la bambina prese a piroettare e non riuscì più a fermarsi, tanto che parve avesse perduto completamente il controllo di sé. Danzò una gavotta e poi una csarda e poi un valzer, volteggiando attraverso i campi.

Il cocchiere della vecchia signora si lanciò all’inseguimento della bambina, la prese e la riportò nella carrozza, ma i piedini che indossavano le scarpette rosse continuavano a piroettare nell’aria. Quando riuscirono a togliergliele, finalmente i piedi della bambina si quietarono. Di ritorno a casa, la vecchia signora lanciò le scarpette rosse su uno scaffale altissimo e ordinò alla bambina di non toccarle mai più. Ma lei non riusciva a fare a meno di guardarle e desiderarle. Per lei erano ancora la cosa più bella che si trovasse sulla faccia della terra. Poco tempo dopo, mentre la signora era malata, la bambina strisciò nella stanza in cui si trovavano le scarpette rosse. Le guardò, là in alto sullo scaffale, le contemplò, e la contemplazione si trasformò in potente desiderio, tanto che la bambina prese le scarpe dallo scaffale e subito se le infilò, pensando che non sarebbe accaduto nulla di male. Ma non appena le ebbe ai piedi subito si sentì sopraffatta dal desiderio di danzare. Danzò uscendo dalla stanza, e poi lungo le scale, prima una gavotta, poi un csarda e poi un valzer vertiginoso. La bambina era in estasi e si accorse di essere nei guai solo quando volle girare a sinistra e le scarpe la costrinsero a girare a destra, e volle danzare in tondo e quelle la obbligarono a proseguire. E poi la portarono giù per la strada, attraverso i campi melmosi e nella foresta scura.

Appoggiato a un albero c’era il vecchio soldato dalla barba rossiccia, con il braccio al collo. “Oh che belle scarpette da ballo!” esclamò. Terrorizzata, la bambina cercò di sfilarsi le scarpe, ma più tirava e più quelle aderivano ai piedi. E così danzò e danzò sulle più alte colline e attraverso le valli, sotto la pioggia e sotto la neve e sotto la luce abbagliante del sole. Danzò nelle notti più nere e all’alba, danzò fino al tramonto. Ma era terribile: per lei non esisteva riposo. Danzò in un cimitero e là uno spirito pronunciò queste parole: “Danzerai con le tue scarpette rosse fino a che non diventerai come un fantasma, uno spettro, finchè la pelle non penderà sulle ossa, finchè di te non resteranno che visceri danzanti. Danzerai di porta in porta per tutti i villaggi e busserai tre volte a ogni porta, e quando la gente ti vedrà, temerà per la sua vita”. La bambina chiese pietà, ma prima che potesse insistere le scarpette rosse la trascinarono via. Danzò sui rovi, attraverso le correnti, sulle siepi, e danzando danzando arrivò a casa e c’erano persone in lutto. La vecchia signora era morta. Ma lei continuava a danzare.

Entrò danzando nella foresta dove viveva il boia della città. E la mannaia appesa al muro prese a tremare sentendola avvicinare. “Per favore” pregò il boia mentre danzava sulla sua porta “Per favore mi tagli le scarpe per liberarmi da questo tremendo fato”. E con la mannaia il boia tagliò le cinghie delle scarpette rosse. Ma queste le restavano ai piedi. E lei lo pregò di tagliarle i piedi, perché così la sua vita non valeva nulla. Il boia allora le tagliò i piedi. E le scarpette rosse con i piedi continuarono a danzare attraverso la foresta e sulla collina e oltre, fino a sparire alla vista. E ora la bambina era una povera storpia e doveva farsi strada nel mondo andando a servizio da estranei, e mai più desiderò delle scarpette rosse.

Testa di rospo di Capuana

Questa favola appartiene a Luigi Capuana, uno degli autori più conosciuti del Verismo italiano. A discapito di quanto ci si aspetti però è una storia di fantasia.

C’era una volta un Re e una Regina. La Regina partorì e fece una bambina più bella del sole. Insuperbita di questa figliolina così bella, spesso diceva: “Neppur le Fate potrebbero farne un’altra come questa”. Ma una mattina, va per levarla di culla e la trova contraffatta, con una testa di rospo. “Oh Dio, che orrore!” Benché fosse figlia unica e le volesse un gran bene, quella testa di rospo le facea schifo e non volle più allattarla. Il Re, angustiato, disse a un servitore: “Prendila e portala giù; mettila fra i cagnolini figliati dalla cagna. Però se morisse, sarebbe meglio per lei!” Non morì. La cagna, tre o quattro volte al giorno, tralasciava di dar latte ai cagnolini e porgeva le poppe a Testa-di-rospo. La leccava, la ripuliva, la scaldava tenendosela accosto e non permetteva che alcuno stendesse la mano a toccarla. Quando il Re e la Regina scendevano giù per vedere, la cagna ringhiava, mostrava i denti; un giorno che la Regina fece atto di voler riprendere la figliuola, le saltò addosso e le morse mani e gambe.

Testa-di-rospo nel canile prosperava. Quando crebbe, non volle più lasciarlo. Durante la giornata abitava su nelle stanze reali: pranzava a tavola col Re, con la Regina e con tutta la corte e, prima di toccar le pietanze, metteva da parte i meglio bocconi; poi ne riempiva il grembiule e scendeva giù, nel canile. “Mamma cagna, mangiate; la mia vera mamma siete voi!” La notte dormiva lì, con mamma cagna. Non c’era mai stato verso di indurla a dormire nel suo letto. La Regina, sentendole ripetere ogni giorno: “Mamma cagna, mangiate; la mia vera mamma siete voi!”, cominciò a odiarla terribilmente, come se non fosse stata sua figliuola. E una volta disse al Re: “Maestà, no, costei non è la nostra figliuola. Ce la scambiarono quand’era in culla. Che ne facciamo di questo mostro? Io direi di farla ammazzare.” Il Re non ebbe animo di commettere questa crudeltà: “Mostro o non mostro, è una creatura di Dio.” Talché la Regina giurò di disfarsene in segreto. E che pensò? Pensò di dar ad intendere al Re che era nuovamente gravida e, quando fu l’ora, gli fece presentare una bambina nata di fresco, che lei aveva fatto comprare a peso d’oro in un altro paese. Il Re fu molto contento e alla bambina mise nome Gigliolina, perché era bianca come un giglio. Allora la Regina gli disse: “Ora che abbiamo quest’altra figliuola, che ne facciamo di quel mostro? Io direi di farla ammazzare.” Per amore di quest’altra figliuola, il Re, benché a malincuore, acconsentì. Ma come andarono per prendere Testa-di-rospo e farla ammazzare, sulla soglia del canile trovarono mamma cagna, che abbaiava e ringhiava mostrando i denti. E Testa-di-rospo non voleva uscir fuori. “Perché non vieni fuori?” “Perché mi farete ammazzare.” “E chi ti ha detto questo?” “Me l’ha detto mamma cagna.” La Regina, maliziosa, voleva indurla con le buone: “Non è vero, sciocchina. Vieni su, vieni a vedere che bella sorellina ti è nata.”

“Sorellina non me n’è nata,
A peso d’oro fu comprata.
Mamma cagna, mamma cagna,
Siete voi la vera mamma.”

“Che significa?” domandò il Re. “O che gli date retta? Testa-di-rospo parla da bestia”. Ma il Re disse: “Chi tocca Testa-di-rospo l’ha da fare con me. Mostro o non mostro, è una creatura di Dio. Lei è la vera Reginotta, perché nata per prima”. La Regina, arrabbiata per lo smacco, che pensò? Pensò di ricorrere a una Strega: “Fammi due vestiti compagni, tutti oro e diamanti; ma uno dev’essere incantato: deve bruciare addosso a chi se lo mette”. “Fra un anno li avrete”. In questo mentre la Regina fingeva di voler bene egualmente alle due figliuole; anzi, se comprava un balocco, un ninnolo per la Gigliolina, ne comprava uno più bello per Testa-di-rospo. La Gigliolina, vedendo il regalo più bello, si metteva a strillare: “Quello lì lo voglio io!” E Testa-di-rospo glielo dava.

Passato l’anno, la Regina tornò alla Strega. “Maestà, i vestiti sono pronti; ma badate di non scambiarli. Per non sbagliare in questo incantato ci ho messo un diamante di più. “Ho capito”. Chiamò le due figliuole e disse: “Ecco due bei vestiti; provateveli subito, per vedere se vanno bene. Questo è il tuo, Testa-di-rospo”. Ma la Gigliolina, contati i diamanti e visto che in quello di Testa-di-rospo ce n’era uno di più, comincia a strillare: “Quello lì lo voglio io!” La Regina non permise che lo toccasse. Intanto la Gigliolina continuava a strillare e pestare coi piedi: “Quello lì lo voglio io! Quello lì lo voglio io!” Accorse il Re e disse: “Non ti persuadi che quello è un pò più grande? Provalo, e vedrai.” E stava per infilarglielo. “No, Maestà” disse Testa-di-rospo.

Vestito bello, fatto da poco,
Vestito nuovo fatto di fuoco,
Mamma cagna, mamma cagna,
Siete voi la vera mamma.

“Che significa?” domandò il Re. “O che gli date retta. Testa-di-rospo parla da bestia.” Ma il Re disse: “Chi fa danno a Testa-di-rospo, fa il proprio danno. Lei è la vera Reginotta, perché nata per prima.” La Regina, arrabbiata per quest’altro smacco, non sapeva più che inventare. E la sua rabbia si accrebbe quando vide arrivare a corte il Reuccio del Portogallo, che andava cercando una principessa reale per moglie. La Regina disse al Re: “Almeno facciamogli vedere tutte e due le figliuole; così sceglierà”. Il Re, per contentarla, rispose: “Sia pure”. Il Reuccio voleva visitare le principesse negli appartamenti ov’esse abitavano e la Regina lo condusse prima nel magnifico appartamento della Gigliolina. La Gigliolina, vestita cogli abiti più sfarzosi, sfolgorava come una stella. Il Reuccio disse: “È mai possibile che l’altra principessa sia bella quanto questa? Andiamo a vederla. Ma dove andiamo?” “Nel canile. L’altra abita nel canile”. Il Reuccio, stupito, scese giù insieme col Re e con la Regina, e trovò Testa-di-rospo nel canile: “Reuccio, entrate voi solo; c’è posto soltanto per uno.” Il Reuccio entrò e Testa-di-rospo chiuse lo sportello. Mamma cagna si accovacciò lì dietro, ringhiando. Aspetta un’ora, aspetta due, il Reuccio non compariva. La Regina, sopra tutti, era impaziente pel ritardo: Chi sa che brutto scherzo Testa-di-rospo stava per farle! Il brutto scherzo fu che il Reuccio, uscito dal canile, disse al Re: “Maestà, vi chieggo la mano di Testa-di-rospo”. La Regina non rinveniva dallo sbalordimento: “Ma che cosa avete fatto tante ore lì dentro?” “Ho visitato tutto il palazzo. Di fronte al palazzo di Testa-di-rospo, il palazzo reale sembrerebbe una stalla”. Il Re e la Regina si guardarono, meravigliati. “Reuccio, dite davvero?” “Dico davvero”. La Regina dovette inghiottire quest’altra pillola amara, e che pensò? Pensò di accertarsi coi suoi occhi di quello che il Reuccio aveva detto: “Testa-di-rospo, vorrei vedere il tuo palazzo.” “Maestà, quel canile lo chiamate palazzo?” “Testa-di-rospo, una notte vorrei dormire con te”. “Chiedetene il permesso a mamma cagna: è lei la padrona”. La Regina andò a trovare mamma cagna: “Mamma cagna, vorrei visitare il vostro palazzo” “Bau! Bau!” “Che cosa dice?” “Dice di sì”. “Mamma cagna, una notte vorrei dormire con Testa-di-rospo”. “Bau! Bau!” “Che cosa dice?” “Dice di sì”. La Regina, per entrare nel canile, dovette quasi piegarsi in due. “Ed è questo il tuo gran palazzo?” “Questo: non ve lo dicevo?” La Regina, indispettita, uscì fuori brontolando contro il Reuccio, che le avea dato ad intendere tante sciocchezze; e appena fuori, cominciò a sentire per tutto il corpo un brulichio e un brucìo insoffribile. Era, da capo a piedi, ripiena di pulci; e, siccome montava a corsa le scale e scoteva le vesti, ne seminava per terra cataste che annerivano il pavimento. Così per le stanze del palazzo; ma più scoteva e più gliene brulicavano addosso e se la rodevano viva viva. In un momento, Re, ministri, dame di corte, gente di palazzo, tutti si videro assaliti da quelle bestiole affamate, che davano morsi da portar via la pelle; e tutti urlavano: “Accidempoli alla Regina che volle entrare nel canile!” Il Re corse subito da Testa-di-rospo: “Figliuola mia, dàcci aiuto!” “Mamma cagna, dategli aiuto!” Mamma cagna si mise a girellare per le stanze: “Bau, bau! Bau, bau!” E sentendola abbaiare, tutte le pulci saltavano addosso a lei. La Regina non si stimò castigata abbastanza e insistette: “Testa-di-rospo, questa notte vengo a dormire con te.” “Maestà, in un giaciglio!” “Per una volta, potrò provare.” Si acconciò alla meglio e finse di dormire. In quel canile ci doveva essere un mistero; voleva scoprirlo.

Verso mezzanotte, sentì un romore come di un crollo di muro. Aprì gli occhi, e rimase abbagliata. Aveva davanti una fila di stanze, così ricche e così splendide, che quelle del palazzo reale, in confronto, sarebbero parse vere stalle; e Testa-di-rospo che dormiva, in fondo, sopra un letto lavorato d’oro e di pietre preziose, con cortinaggi di seta e lenzuola bianche più della spuma. E non aveva più quella schifosa testa di rospo; ma era così bella che, al paragone, la Gigliolina, bella e bianca come un giglio, sarebbe parsa proprio una megera. Accecata dal furore, la Regina pensò: ‘ Ora entro, e mentre dorme, la strozzo colle mie mani. ‘ Ma il muro si richiuse a un tratto, e lei vi batté la faccia e si ammaccò il naso. Senza aspettare che facesse giorno, tornò su in camera. Sentiva nelle carni un brucìo, un gonfiore!… Stende una mano e si scorge che, da capo a piedi, era piena di zecche. Si sveglia il Re: è pieno di zecche anche lui. Si svegliano i ministri, le dame di corte, insomma tutte le persone del palazzo reale; son tutti, da capo a piedi, pieni di zecche e, dal prurito e dal dolore, non possono reggere: “Accidempoli alla Regina, che volle dormire nel canile!” Il Re corse di nuovo da Testa-di-rospo. “Figliuola mia, dàcci aiuto!” “Mamma cagna, dategli aiuto!” “Mamma cagna, Bau, bau! No, no! Non ne vuol sapere.” “Figliuola mia, dàcci aiuto!” Che aiuto poteva dargli? Mamma cagna rispondeva sempre: “Bau, bau! No, no!” Intanto tornava il Reuccio per sposare Testa-di-rospo. Tutti erano occupati a tagliar le zecche, colle forbici, perché strappare non si potevano; facevano più male. E più ne tagliavano e più ne rimaneva da tagliare: “Accidempoli alla Regina, che volle dormire nel canile!” Allora il Re montò in furore. Afferrò la Regina pel collo e disse: “Trista femmina, che cosa hai tu fatto, da attirarci addosso tanti guai?” La Regina non ne poteva più e confessò ogni cosa: che avea detto come le Fate non potrebbero farne una pari; che avea comprato quella bambina a peso di oro; che avea fatto fare il vestito incantato per bruciare viva Testa-di-rospo. “Ora son proprio pentita e domando perdono alla Fata!” Disse appena così che alla Reginotta cadde giù quella schifosa testa di rospo e la Gigliolina si trovò vestita come una figliuola di contadini, qual era.

La Reginotta splendeva come il sole, sicché, per guardarla, bisognava mettersi una mano agli occhi. Le zecche erano sparite, e non se ne vedeva neppure il segno. Il Reuccio di Portogallo e la Reginotta si sposarono; e se ne stettero e se la godettero e a noialtri nulla dettero.