Una raccolta delle migliori poesie sulla morte che raccontano il momento del trapasso con intensità e struggimento.
La morte è uno dei temi più ricorrenti nella letteratura di ogni tempo come nella poesia. È un mistero insondabile che fa nascere domande su cosa ci sia dopo, se davvero possiamo accedere a un mondo d’anime, a un Paradiso, a un Inferno o a un Purgatorio o se invece ha fine ogni cosa e torniamo ad essere materia dispersa nell’universo.
I dubbi coinvolgono la sfera religiosa, dove chi ha fede non ha dubbi sul fatto che ci sia un dopo, mentre chi non ce l’ha vive nella convinzione che non esista alcuna anima, che tutto si perda con l’ultimo respiro. Sulla morte però hanno riflettuto anche celebri filosofi, che hanno tentato di offrire una spiegazione metafisica su di essa e di definire il suo rapporto con l’uomo.
La metafisica, per chi si stesse chiedendo in cosa consiste, è quella branca della filosofia incentrata sullo studio degli aspetti più autentici e fondamentali della realtà, considerati nella loro interezza, in una prospettiva universale.
Le poesie sulla morte di grandi autori ma anche quelle frutto del talento di artisti anonimi o minori, descrivono gli aspetti più malinconici di tale evento. Lasciano spazio al senso di vuoto e dolore causato dalla perdita di una persona cara e sottolineano la necessità di trovare dentro se stessi il coraggio e la determinazione di andare avanti.
Poesie sulla morte
Autori del passato come quelli contemporanei ci hanno regalato opere di notevole pregio, intense e coinvolgenti, nelle quali chi ha subito una perdita può riconoscersi. Ogni strofa, ogni parola diventa così la rappresentazione del proprio stato d’animo, lo specchio della personale interiorità. Insomma si trova nei loro versi, un modo per dare voce al dolore che attanaglia.
Ad esempio Rabindranath Tagore, in La morte non è una luce che si spegne, in poche parole esprime la speranza o per meglio dire la certezza che la fine della vita sia l’inizio di qualcosa di nuovo. È un’alba e non un tramonto.
La morte non è
una luce che si spegne.
È mettere fuori la lampada
perché è arrivata l’alba.
Suggestiva e metaforica, è la lirica di Cesare Pavese, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, dedicata all’attrice americana Constance Dowling, indifferente ai sentimenti del poeta. Qui la morte viene raccontata come una presenza costante della vita, qualcosa da cui non ci si riesce mai a liberare, che ci perseguita. Da sentimento universale che coinvolge tutti, la morte diventa poi anche la rappresentazione della perdita di ogni speranza.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.
Il Canto Navajo, Non restare a piangere sulla mia tomba, considera la morte solo un momento di passaggio dopo la quale si torna ad essere un tutt’uno con gli elementi della natura.
Non restare a piangere sulla mia tomba,
non sono lì, non dormo.
Sono mille venti che soffiano,
sono la scintilla diamante sulla neve,
sono la luce del sole sul grano maturo.
Sono la pioggerellina d’autunno
quando ti svegli nella quiete del mattino…
Sono le stelle che brillano la notte.
Non restare a piangere sulla mia tomba,
non sono lì, non dormo.
Il componimento di Henry Scott Holland, La morte non è niente, è profondo e ricco di emozioni. È dedicato a chi resta ed è un invito a non lasciarsi abbattere dalla sofferenza, in quanto chi se n’è andato fisicamente, è presente spiritualmente nella vita di chi si ama.
La morte non è niente. Non conta.
Io me ne sono solo andato nella stanza accanto.
Non è successo nulla.
Tutto resta esattamente come era.
Io sono io e tu sei tu§
e la vita passata che abbiamo vissuto così bene insieme è immutata, intatta.Quello che eravamo prima l’uno per l’altro lo siamo ancora.
Chiamami con il vecchio nome familiare.
Parlami nello stesso modo affettuoso che hai sempre usato.
Non cambiare tono di voce,
Non assumere un’aria solenne o triste.Continua a ridere di quello che ci faceva ridere,
di quelle piccole cose che tanto ci piacevano quando eravamo insieme.
Sorridi, pensa a me e prega per me.
Il mio nome sia sempre la parola familiare di prima.
Pronuncialo senza la minima traccia d’ombra o di tristezza.
La nostra vita conserva tutto il significato che ha sempre avuto.È la stessa di prima,
C’è una continuità che non si spezza.
Cos’è questa morte se non un incidente insignificante?
Perché dovrei essere fuori dai tuoi pensieri solo perché sono fuori dalla tua vista?Non sono lontano, sono dall’altra parte, proprio dietro l’angolo.
Va tutto bene; nulla è perduto.
Un breve istante e tutto sarà come prima.
E come rideremo dei problemi della separazione quando ci incontreremo di nuovo!
Alfonsina Storni, in Cancellata, spiega invece come la morte sia un evento così comune da diventare il gesto di un impiegato che cancella il nome dello scomparso da un registro.
Il giorno in cui morirò, la notizia
seguirà le solite procedure,
da un ufficio all’altro con precisione
dentro ogni registro verrò cercata.E là molto lontano, in un paesino
che sta dormendo al sole su in montagna,
sopra il mio nome, in un vecchio registro,
mano che ignoro traccerà una riga.
Per Fernando Pessoa, in La morte è la curva della strada, la scomparsa di chi si ama è solo un passaggio verso un altro mondo. Chi non c’è più esiste come chi c’è ancora, solo in un’altra forma.
La morte è la curva della strada,
morire è solo non essere visto.
Se ascolto, sento i tuoi passi
esistere come io esisto.La terra è fatta di cielo.
Non ha nido la menzogna.
Mai nessuno s’è smarrito.
Tutto è verità e passaggio.
Emily Dickinson, in Se dovessi morire, esprime la sua serenità a proposito della morte perché consapevole che l’esistenza altrui proseguirà comunque, che nulla si fermerà.
Se io dovessi morire –
E tu dovessi vivere –
E il tempo gorgogliasse –
E il mattino brillasse –
E il mezzodì ardesse –
Com’è sempre accaduto –Se gli Uccelli costruissero di buonora
E le Api si dessero altrettanto da fare –
Ci si potrebbe accomiatare a discrezione
Dalle imprese di quaggiù!È dolce sapere che i titoli terranno
Quando noi con le Margherite giaceremo –
Che il Commercio continuerà –
E gli Affari voleranno vivaci –Rende la partenza tranquilla
E mantiene l’anima serena –
Che gentiluomini così brillanti
Dirigano la piacevole scena!
Edgar Lee Masters, nella lirica La collina, racconta invece dei morti seppelliti su una collina, il modo in cui le loro vite sono cessate.
Dove sono Elmer, Herman, Bert, Tom e Charley,
l’abulico, l’atletico, il buffone, l’ubriacone, il rissoso?
Tutti, tutti, dormono sulla collina.
Uno trapassò in una febbre,
uno fu arso in miniera,
uno fu ucciso in rissa,
uno morì in prigione,
uno cadde da un ponte lavorando per i suoi cari –
tutti, tutti dormono, dormono, dormono sulla collina.Dove sono Ella, Kate, Mag, Edith e Lizzie,
la tenera, la semplice, la vociona, l’orgogliosa, la felicie?
Tutte, tutte, dormono sulla collina.
Una morì di un parto illecito,
una di amore contrastato,
una sotto le mani di un bruto in un bordello,
una di orgoglio spezzato, mentre anelava al suo ideale,
una inseguendo la vita, lontano, in Londra e Parigi,
ma fu riportata nel piccolo spazio con Ella, con Kate, con Mag –
tutt, tutte dormono, dormono, dormono sulla collina.Dove sono zio Isaac e la zia Emily,
e il vecchio Towny Kincaid e Sevigne Houghton,
e il maggiore Walker che aveva conosciuto
uomini venerabili della Rivoluzione?
Tutti, tutti, dormono sulla collina.Li riportarono, figlioli morti, dalla guerra,
e figlie infrante dalla vita,
e i loro bimbi orfani, piangenti –
tutti, tutti dormono, dormono, dormono sulla collina.Dov’è quel vecchio suonatore Jones
che giocò con la vita per tutti i novant’anni,
fronteggiando il nevischio a petto nudo,
bevendo, facendo chiasso, non pensando né a moglie né a parenti,
né al denaro, né all’amore, né al cielo?Eccolo! Ciancia delle fritture di tanti anni fa,
delle corse di tanti anni fa nel Boschetto di Clary,
di ciò che Abe Lincoln
disse una volta a Springfield.
I cani sono angeli con la coda. Chi ha la fortuna di averne uno al suo fianco, sa bene che l’unico momento in cui ci fanno soffrire è quando se ne vanno. George Gordon Byron, in proposito, ha scritto una poesia toccante dedicata proprio alla scomparsa di un peloso dal titolo Epitaffio a un cane.
In questo luogo
giacciono i resti di una creatura
che possedette la bellezza
ma non la vanità
la forza ma non l’arroganza
il coraggio ma non la ferocia
E tutte le virtù dell’uomo
senza i suoi Vizi.Quest’elogio, che non sarebbe che vuota lusinga
sulle ceneri di un uomo,
è un omaggio affatto doveroso alla memoria di
“Boatswain”, un Cane che naque in terranova
nel maggio del 1803
e morì a Newstead Abbey
il 18 novembre 1808.Quando un fiero figlio dell’uomo
al seno della terra fa ritorno,
sconosciuto alla gloria, ma sorretto
da nobili natali,
lo scultore si prodiga a mostrare
il simulacro vuoto del dolore,
e urne istoriate ci rammentano
l’uomo che giace lì sepolto;e quando ogni cosa si è compiuta
sul sepolcro noi potremo leggere
non chi fu quell’uomo,
ma chi doveva essere.Ma il misero cane, l’amico più caro in vita,
che per primo saluta
e che difende ultimo,
il cui bel cuore appartiene al suo padrone,
che lotta, respira,
vive e fatica per lui solo,
cade senza onori;
e solo col silenzio
è premiato il suo valore;e l’anima che fu sua su questa terra
gli vien negata in cielo;
mentre l’uomo, insetto vano!
spera il perdono,e per sé solo
pretende un paradiso intero.O uomo! flebile inquilino della terra per un’ora,
abietto in servitù, corrotto dal potere,
ti fugge con disgusto chi ti conosce bene,
o vile massa di polvere animata!L’amore in te è lussuria, l’amicizia truffa,
la parola inganno, il sorriso menzogna!
Vile per natura, nobile sol di nome,
ogni animale ti mette alla vergogna.O tu, che per caso guardi quest’umile sepolcro,
passa e va’ : non è in onore
di creatura degna del tuo pianto.Esso fu innalzato per segnare
il luogo ove tutto quel che di un amico resta
riposa in pace;
un sol ne conobbi: e qui si giace.
Sandro Penna, in Ora la tua voce disparirà, narra con parole toccanti il momento in cui, alla morte della persona amata, ogni cosa si spegnerà.
Ora la voce tua disparirà.
E domani cadrà anche il tuo fiore.
E nulla più verrà. Forse la vita
si spegne in un falò d’astri in amore.
Grazia Deledda, in Cade una foglia, narra invece il momento della morte attraverso l’immagine di una foglia che cade da un albero e si adagia sulla terra, confondendosi all’ombra.
Cade una foglia che pare
tinta di sole, che nel cadere
ha l’iridescenza di una farfalla;
ma appena giunta a terra
si confonde con l’ombra, già morta.
Anche Arturo Graf ne La rosa morente descrive la fine della vita attraverso un elemento naturalistico, in questo caso la rosa in un giardino che appassisce lentamente.
Entro una vaga, iridescente fiala
Di gemmato cristal, nella pomposa
Patrizia sala, una vermiglia rosa
L’odorante e sottil spirito esala.Tutta di specchi e d’ori e di fastosa
Seta risplende intorno a lei la sala,
Mentre un raggio di sol che d’alto calaSul dipinto tappeto arde e riposa.
Ma la stremata rosa, a cui del sole
Che già la tinse ornai si spegne il raggio,
Quel vano lustro e quella pompa ignora.E moribonda le incomposte ajuole,
E i pruni del paterno orto selvaggio,
E il cespuglio natio sogna ed implora.
Pacificazione primaverile è una preghiera di Fëdor Ivanovič Tjutčev alle persone amate affinché lo seppelliscano, al termine della vita, nell’erba e non nella terra umida.
Oh non mettetemi
nella terra umida!
Nascondetemi, seppellitemi
Nella folta erba!Che il respiro del vento
Faccia ondeggiare l’erba,
Che di lontano un flauto canti,
Che luminose e placide le nubi
Fluttuino sopra di me!
Boris Vian, nella poesia Non vorrei crepare, racconta di come non vorrebbe morire prima di aver realizzato tutti i suoi desideri, tutte le cose che ha in mente di provare.
Non vorrei crepare
Prima d’aver conosciuto
I cani neri del Messico
Che dormono senza sognare
Le scimmie a culo nudoDivoratrici dei tropici
I ragni d’argento
Dal nido pieno di bolle
Non vorrei crepare
Senza sapere se la luna
Sotto la sua falsa aria di monetaHa un lato appuntito
Se il sole è freddo
Se le quattro stagioni
Sono davvero quattro
Senza aver provatoA portare un vestito
Lungo i grandi viali
Senza aver guardato
Dentro a un tombino
Senza aver ficcato il cazzoNei posti più impensati
Non vorrei crepare
Senza conoscere la lebbra
O le sette malattie
Che si prendono laggiùIl bene e il male
Non mi farebbero penare
Se sapessi
Che ne avrò la strenna
E c’è ancheTutto ciò che conosco
Tutto ciò che apprezzo
E che so che mi piace
Il fondo verde del mare
Dove le alghe ballano il valzer
Sulla sabbia ondulataL’erba bruciata di giugno
La terra che si screpola
L’odore delle conifere
E i baci di coleiChe questo che quello
La bella ecco
Il mio Orsetto, Orsola
Non vorrei crepare
Prima d’aver consumato
La sua bocca con la mia bocca
Il suo corpo con le mie maniIl resto coi miei occhi
Non dico altro bisogna pur
Mantenersi riverenti
Non vorrei creparePrima che abbiano inventato
Le rose eterne
La giornata di due ore
Il mare in montagna
La montagna al mare
La fine del doloreI giornali a colori
Tutti i bambini contenti
E tante cose ancora
Che dormono nei crani
Di geniali ingegneri
Di allegri giardinieri
Di socievoli socialisti
Di urbani urbanisti
E di pensatori pensierosiTante cose da vedere
Da vedere e da sentire
Tanto tempo d’attendere
A cercare nel nero
E io vedo la fine
Che brulica e che s’avvicina
Con la sua gola ripugnanteE che m’apre le braccia
Di ranocchia brancicante
Non vorrei crepare
Nossignore nossignora
Prima d’aver provatoIl gusto che mi tormenta
Il gusto più forte
Non vorrei crepare
Prima di aver gustato
Il sapore della morte…
La poesia Credo di Carlo Bramanti è un inno alla certezza che dopo la morte c’è un’altra vita, un’esistenza fatta di anime che vagano tra ombre e fiori.
Credo che nessuno muoia
credo che l’anima in realtà
divenga un’ombra
e al culmine del suo vagare
si adagi ai piedi
d’un fiore non visto.Quei fiori gialli
di cui son piene
le campagne
quando fai ritorno a casa
e vorresti che lei
esistesse.
In Elogio della morte, Alda Merini descrive il termine della vita come qualcosa di ostile e violento al quale però resiste con determinazione.
Se la morte fosse un vivere quieto,
un bel lasciarsi andare,
un’acqua purissima e delicata
o deliberazione di un ventre,
io mi sarei già uccisa.Ma poiché la morte è muraglia,
dolore, ostinazione violenta,
io magicamente resisto.Che tu mi copra di insulti,
di pedate, di baci, di abbandoni,
che tu mi lasci e poi ritorni senza un perché
o senza variare di senso
nel largo delle mie ginocchia,
a me non importa perché tu mi fai vivere,perché mi ripari da quel gorgo
di inaudita dolcezza,
da quel miele tumefatto e impreciso
che è la morte di ogni poeta.
Richard Yates, nella lirica Un aviatore irlandese prevede la sua morte, dà spazio ai pensieri di un pilota che immagina il momento in cui morirà.
Sento che troverò il mio fato
In un luogo tra le nuvole lassù;
Coloro ch’io combatto io non odio,
Coloro ch’io difendo io non amo;Il mio paese è Kiltartan Cross,
E tnici compaesani i suoi pezzenti,
Non può alea nessuna menomarli
O rendere più lieti che in passato.Non legge né dovere m’imposero la guerra,
Non uomini politici, né folle plaudenti,
Un impulso gioioso e solitarioTrasse a questo tumulto fra le nubi;
Ho soppesato tutto, valutato ogni cosa,
Gli anni avvenire parvero uno spreco di fiato,
Spreco di fiato gli anni del passato,In bilico con questa vita, questa morte.
Intensa e struggente è la lirica di Anna Achmatova, Lo stormo bianco, dedicata a un uomo amato profondamente e perduto.
Non so se sei vivo
o sei perduto per sempre,
se posso ancora cercarti nel mondo
o ti debbo piangere mestamente
come morto nei pensieri della sera.Ti ho dato tutto: la quotidiana preghiera
e la struggente febbre dell’insonnia,
lo stormo bianco dei miei versi
e l’azzurro incendio degli occhi.Nessuno mi è stato più intimo di te,
nessuno mi ha reso più triste,
nemmeno chi mi ha tradita fino al tormento,
nemmeno chi mi ha lusingata e poi dimenticata.
Annabel Lee di Edgar Allan Poe, è una lirica nella quale viene raccontato l’amore profondo, più forte della morte, del poeta nei riguardi di una donna conosciuta quand’erano entrambi dei bambini.
Molti e molti anni or sono,
in un regno vicino al mare,
viveva una fanciulla che potete chiamare
col nome di Annabel Lee;
aveva quella fanciulla un solo pensiero:
amare ed essere amata da me.Io fanciullo, e lei fanciulla,
in quel regno vicino al mare:
ma ci amavamo d’amore ch’era altro che amore,
io e la mia Annabel Lee;
di tanto amore i serafini alati del cielo
invidiavano lei e me.E proprio per questo, molto molto tempo fa,
in quel regno vicino al mare,
uscì un gran vento da una nuvola e raggelò
la mia bella Annabel Lee;
e così giunsero i nobili suoi genitori
e la portarono lontano da me,
per chiuderla dentro una tomba
in quel regno vicino al mare.Gli angeli, molto meno felici di noi, in cielo,
invidiavano lei e me:
e fu proprio per questo (come sanno tutti
in quel regno vicino al mare),
che, di notte, un gran vento uscì dalle nubi,
raggelò e uccise la mia Annabel Lee.Ma il nostro amore era molto, molto più saldo
dell’amore dei più vecchi di noi
(e di molti di noi assai più saggi):
né gli angeli, in cielo, lassù,
né i demoni, là sotto, in fondo al mare
mai potranno separare la mia anima
dall’anima di Annabel Lee.Mai, infatti, la luna risplende ch’io non sogni
la bella Annabel Lee:
né mai sorgono le stelle ch’io non veda
splendere gli occhi della bella Annabel Lee,
e così, per tutta la notte, giaccio a fianco
del mio amore: il mio amore, la mia vita,
la mia sposa, nella sua tomba, là vicino al mare,
nel suo sepolcro, sulla sponda del mare.
Nel componimento La morte, Kahlil Gibran cerca di capire il mistero della fine e il senso della vita, di quanto l’una sia direttamente connessa all’altra.
Ora vorremmo chiederti della Morte.
E lui disse: Voi vorreste conoscere il segreto della morte, ma come potrete scoprirlo se non cercandolo nel cuore della vita?
Il gufo, i cui occhi notturni sono ciechi al giorno, non può svelare il mistero della luce.
Se davvero volete conoscere lo spirito della morte, spalancate il vostro cuore al corpo della vita,
poiché la vita e la morte sono una cosa sola, come una sola cosa sono il fiume e il mare.Nella profondità dei vostri desideri e speranze, sta la vostra muta conoscenza di ciò che è oltre la vita;
e come i semi sognano sotto la neve, il vostro cuore sogna la primavera.
Confidate nei sogni, poiché in essi si cela la porta dell’eternità.
La vostra paura della morte non è che il tremito del pastore davanti al re che posa la mano su di lui in segno di onore.In questo suo fremere, il pastore non è forse pieno di gioia poiché porterà l’impronta regale?
E tuttavia non è forse maggiormente assillato dal suo tremito?
Che cos’è morire, se non stare nudi nel vento e disciogliersi al sole?E che cos’è emettere l’estremo respiro se non liberarlo dal suo incessante fluire, così che possa risorgere e spaziare libero alla ricerca di Dio?
Solo se berrete al fiume del silenzio, potrete davvero cantare.
E quando avrete raggiunto la vetta del monte, allora incomincerete a salire.
E quando la terra esigerà il vostro corpo, allora danzerete realmente.
Emily Dickinson, nella poesia Chi è amato non conosce morte, sottolinea come l’amore renda eterni perché è paragonabile a una sostanza divina.
Chi è amato non conosce morte,
perché l’amore è immortalità,
o meglio, è sostanza divina.
Chi ama non conosce morte,
perché l’amore fa rinascere la vita
nella divinità.
Di rinascita dell’anima e vita eterna parla invece la lirica di Dylan Thomas, E la morte non avrà più dominio.
E la morte non avrà più dominio.
I morti nudi saranno una cosa
Con l’uomo nel vento e la luna d’occidente;Quando le loro ossa saranno spolpate e le ossa pulite scomparse,
Ai gomiti e ai piedi avranno stelle;
Benché ammattiscano saranno sani di mente,
Benché sprofondino in mare risaliranno a galla,
Benché gli amanti si perdano l’amore sarà salvo;E la morte non avrà più dominio.
E la morte non avrà più dominio.
Sotto i meandri del mareGiacendo a lungo non moriranno nel vento;
Sui cavalletti contorcendosi mentre i tendini cedono,
Cinghiati ad una ruota, non si spezzeranno;Si spaccherà la fede in quelle mani
E l’unicorno del peccato li passerà da parte a parte;
Scheggiati da ogni lato non si schianteranno;E la morte non avrà più dominio.
E la morte non avrà più dominio.
Più non potranno i gabbiani gridare ai loro orecchi,Le onde rompersi urlanti sulle rive del mare;
Dove un fiore spuntò non potrà un fiore
Mai più sfidare i colpi della pioggia;
Ma benché matti e morti stecchiti,Le teste di quei tali martelleranno dalle margherite;
Irromperanno al sole fino e che il sole precipiterà,
E la morte non avrà più dominio.
Boris Vian, in La vita è come un dente, racconta di come ogni uomo debba vivere la vita al massimo, senza lasciarsi scivolare via i momenti.
La vita, è come un dente
All’inizio non ci si pensa
Ci si accontenta di masticare
Ma poi ecco che d’improvviso si guasta
Fa male, e preoccupati
Lo si cura non senza fastidi
E per essere veramente guariti,
Bisogna strapparla, la vita.
Johnn Donne, nella poesia Morte non essere troppo orgogliosa, si rivolge direttamente alla morte sostenendo come essa non avrà più potere di fronte alla resurrezione degli uomini.
Morte, non essere troppo orgogliosa,
se anche qualcuno ti chiama terribile e possente
Tu non lo sei affatto: perché quelli che pensi di travolgere
in realtà non muoiono, povera morte, né puoi uccidere me.Se dal riposo e dal sonno, che sono tue immagini,
deriva molto piacere, molto più dovrebbe derivarne da te,
con cui proprio i nostri migliori se ne vanno, per primi,
tu che riposi le loro ossa e ne liberi l’anima.Schiava del caso e del destino, di re e disperati,
Tu che dimori con guerra e con veleno, con ogni infermità,
l’oppio e l’incanto ci fanno dormire ugualmente,
e molto meglio del colpo che ci sferri.Perché tanta superbia? Perché tanta superbia?
Trascorso un breve sonno, eternamente,
resteremo svegli, e la morte non sarà più,
sarai Tu a morire.
Rabindranath Tagore, ne Il mistero della vita, narra di come esistenza e morte si fondano l’una con l’altra. Sono le facce di una stessa medaglia.
Il mistero della vita
penetra nel mistero della morte,
il giorno chiassoso
tace dinanzi al silenzio delle stelle.